Natal do Senhor - 2009
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25 Dezembro 2009
Homilia de ENZO BIANCHI
A paz é promessa dos anjos aos homens que Deus ama, mas os homens que Deus ama recebem esta paz apenas se crêem no amor. Se cremos no amor, recebemos esta paz
Ascolta l'omelia di ENZO BIANCHI, priore di Bose:
Bose, 25 dicembre 2009
Carissimi fratelli e sorelle, amici e ospiti,
siamo immersi nella notte, la notte più lunga dell’anno, ma siamo svegli, siamo vigilanti, in attesa e intenti a celebrare l’evento di salvezza, la nascita di Gesù, la venuta al mondo del Dio che si è fatto uomo. Non è un caso che la chiesa ci chieda di vivere nella notte le tre più grandi feste che celebrano dossologicamente il mistero pasquale: il Natale, la Pasqua e la Trasfigurazione. Perché? Perché nella notte l’attenzione più facilmente trova un centro su cui fissarsi, perché nella notte ci sono meno distrazioni, perché restare svegli nelle ore normalmente destinate al sonno significa compiere dei gesti altri, diversi, vivere altrimenti il tempo. Nella notte si è quasi costretti vivere il tempo nell’attesa. E chiunque di voi abbia fatto qualche volta l’esperienza dell’insonnia, sa che la cosa che è più desiderata nell’insonnia è che il tempo passi: si attende il mattino.
Ma nella notte la chiesa celebra in realtà la luce, la luce vera, di cui le lampade, che questa sera sono particolarmente presenti in mezzo a noi, sono semplicemente un segno: la luce vera, la luce che non tramonta mai è Gesù Cristo. E il Vangelo che abbiamo ascoltato (Lc 2,1-14) ci testimonia che quando l’angelo del Signore si presentò ai pastori che vegliavano nella notte sul loro gregge, e si presentò per dar loro la buona notizia, il Vangelo della nascita del Messia e Salvatore, la gloria del Signore li avvolse di luce, la luce che vince le tenebre, quella luce che porterà i pastori alla mangiatoia. Dunque il Natale è la festa della luce, celebrata in questa notte, è la festa che ci porta a illuminare case e alberi, per avere e dare dei segni che indichino la luce vera in mezzo a noi, pur nella notte e a volte nelle tenebre della nostra vita. Ma la luce c’è, è Gesù Cristo, e le tenebre – ci assicura il Vangelo – non possono sopraffarla (cf. Gv 1,5). Ma cerchiamo di restare in ascolto della Parola di Dio, che significativamente la chiesa latina ci dona in tre distinte liturgie. Essa ci propone uno straordinario ordo delle letture, un vero cammino per la fede, che un tempo vivevamo tutti come cristiani, partecipando alle tre messe, della notte, dell’aurora e del giorno. Tre liturgie che noi qui a Bose continuiamo però a vivere.
Nel Vangelo che abbiamo ascoltato siamo condotti dalla buona notizia, data dall’angelo, alla mangiatoia, dove Maria, la sposa di Giuseppe, donna gravida, vede il compimento dei giorni e dà alla luce il figlio che lei avvolge in fasce e depone in una semplice mangiatoia, perché non avevano trovato posto nel caravanserraglio. Siamo posti dunque davanti alla nascita di un bambino, davanti alla totale e radicale umanità di Gesù. Ciò che ci viene chiesto di contemplare è un infante, che non parla, ma sa soltanto piangere; un bambino inerme, completamente nelle mani di chi lo ha messo al mondo; un bambino – si precisa – avvolto in fasce, deposto sulla paglia. Chi è costui? È il figlio dell’artigiano Giuseppe e di Maria: quella notte si poteva dire soltanto questo, come più tardi diranno gli abitanti di Nazaret, quando Gesù ritornerà al suo villaggio (cf. Mc 6,3 e par.). Sì, un uomo, totalmente uomo, non c’è nient’altro da vedere. Ma nella sua umanità, che noi dobbiamo riconoscere umanità piena, solidale con noi, è inscritta un’altra identità che può solo essere rivelata da Dio tramite l’angelo. Chi vedeva quel bambino, vedeva un bambino, un uomo, figlio di uomini; ma grazie alla rivelazione dell’angelo coloro che sono andati in quella notte alla mangiatoia hanno riconosciuto in quel bambino il Salvatore, il Messia, il Cristo, ma anche il Signore, il Kýrios.
Ed eccoci dunque al secondo momento liturgico, quello dell’alba. Il Vangelo dell’alba (Lc 2,15-20) ci dice che i pastori, che hanno ricevuto l’annuncio della grande gioia, vanno alla mangiatoia per vedere la Parola che il Signore ha fatto loro conoscere e trovano tutto conforme all’annuncio dell’angelo. E i pastori si interrogano, meditano, riflettono, confrontano le parole dell’angelo con ciò che i loro occhi vedono e cominciano a divulgare la notizia che non è solo la nascita di un bambino, ma è anche la nascita del Messia, del Salvatore. Maria, dal canto suo, osserva, osserva e confronta, medita tutto ciò che è avvenuto. Stupore, contemplazione, interpretazione si intrecciano nel suo cuore e destano la glorificazione di Dio. Maria certamente ha cantato con ancor più forza il suo Magnificat quando ha dato alla luce Gesù; e i pastori, questi primi clienti del Vangelo, questa gente povera e disprezzata al tempo di Gesù – per i quali i religiosi non pretendevano neanche che andassero alla liturgia e al tempio, tanto erano da loro disprezzati come ultimi e incapaci di essere dei veri israeliti –, proprio loro vanno, riconoscono e trovano la fede.
Ma significativamente la chiesa ci convoca ancora per un terzo momento, per la liturgia del giorno, quando ci presenta e ci fa ascoltare il prologo del quarto Vangelo (Gv 1,1-18): questo testo dice che colui che è nato a Betlemme, precisamente sotto Cesare Augusto, in occasione del censimento fatto da Quirinio, è il Lógos, è la Parola di Dio, quella che era nell’in- principio e che si è fatta carne, si è fatta uomo nel grembo di Maria. Quel bambino nato non è soltanto un uomo, non è soltanto il Messia, ma è molto di più: è il Figlio di Dio generato nell’in-principio da Dio, è la sua Parola vivente, è un uomo concepito dallo Spirito santo che è sceso su una donna, Maria (cf. Lc 1,35). Ecco l’apice della contemplazione della fede: si vede soltanto un bambino, ma in quella vita di bambino è inscritta l’identità di Dio, il Dio che ha messo tra parentesi la sua essenza per essere totalmente uomo. E così noi possiamo dire: «Ecco l’uomo, ecco Dio, ecco il Lógos, ecco la Parola di Dio». Questa è la nostra confessione di fede nel giorno del Natale. Chi vede Gesù, chi vede quell’uomo e lo contempla in tutta la sua vita, vede una vita umana, ma in essa, nella sua forma, nella sua narrazione è possibile vedere Dio: «Chi ha visto me, ha visto Dio» (cf. Gv 14,9), dirà Gesù.
Ecco la dossologica celebrazione del Natale che noi viviamo. E se la viviamo così nella fede, nella fede salda, avremo pace. Perché la pace è promessa dagli angeli agli uomini che Dio ama, ma gli uomini che Dio ama ricevono questa pace soltanto se credono all’amore. Se noi crediamo all’amore, riceviamo questa pace, anche se fossimo nella sofferenza, perché vivendo così noi crediamo, aderiamo all’amore. Meglio essere nella sofferenza, nel dolore e nella prova, ma essere nell’amore – e l’amore non rimuove la sofferenza, anzi non c’è amore senza sofferenza e senza sacrificio –, che essere senza sofferenza ma non essere nell’amore fraterno, in quell’amore sincero, senza menzogna, fedele.
A voi fratelli e sorelle, a voi amici, soprattutto quelli che sono assidui alla vita della nostra comunità, a voi ospiti che magari incontriamo soltanto qualche volta, cosa può dire chi questa notte ha l’incarico di spezzare la Parola? Una sola cosa. Dio ha tanto amato l’umanità da realizzare l’evento dell’umanizzazione di se stesso, e noi celebriamo l’amore di Dio. Così noi realizziamo la salvezza che viene solo da Dio, dall’amore di Dio. Dunque ciò che veramente è importante come augurio questa sera è che siamo confermati nel credere all’amore, secondo le parole di Giovanni nella sua Prima lettera: «Noi abbiamo creduto all’amore» (1Gv 4,16). E chi crede all’amore, in qualunque situazione si trovi, conosce la pace che Dio dà agli uomini da lui tanto amati.
Enzo Bianchi