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Certo, Caino diventò costruttore di una città (cf. Gen 4,16-17), ma non è l’omicidio la causa della costruzione delle città sulla terra. La città, e noi non possiamo dimenticarlo, è sorta per proteggere l’umanità stessa e favorire processi di umanizzazione: contro il pericolo di un nomadismo che desitua l’uomo e non gli permette di custodire la terra né di regnare su di essa, e anche contro l’assolutezza del clan, che dà sì identità al singolo, ma lo imprigiona nello spazio della parentela e della somiglianza. La città è stata ed è il luogo per eccellenza della costruzione e della manifestazione dell’umano, il luogo più fecondo per l’espressione e l’esaltazione dell’ethos, proprio perché costruire una città significa fare un’opera architettonica etica, che riguarda cioè il rapporto degli uomini tra loro – chiamati a divenire «concittadini» – e con lo spazio, che deve essere al loro servizio.
Certamente l’identità che la città fornisce agli uomini è un’identità dinamica, costantemente ricostruita e rinnovata, dunque in continuo processo di mutamento, perché essa esercita una forza centripeta capace di attirare tutti e, quindi, anche il diverso, lo sconosciuto, lo straniero. Sempre chiamata a tenere aperte le sue porte, ad accogliere – se non vuole trasformarsi in cittadella assediata –, la città ha una vocazione al riconoscimento dell’altro, sconosciuto e inatteso, una vocazione alla pluralità e alla complessità. Le differenze sono disorientanti, la stranierità incute paura, lo sconosciuto facilmente è percepibile come nemico, ma la città non può evitare queste emergenze: ne va della sua vocazione. Per essere tale, la vita della città abbisogna di quest’arte dell’apertura, del riconoscimento, della capacità di integrare il nuovo e il diverso, per instaurare un’ulteriore unità, una nuova solidarietà, un’inattesa comunità che costituiscono un arricchimento della polis.