The spiritual struggle: biblical approaches
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Vi sono tre brani biblici che, letti in parallelo, costituiscono il paradigma delle seduzioni messe in atto dal demonio nei confronti dell’uomo: il racconto della tentazione alla quale soccombono il primo uomo e la prima donna (Gen 3,1-6); la narrazione delle tentazioni affrontate vittoriosamente da Gesù (Mt 4,1-11; Lc 4,1-13); la descrizione della lotta contro la mondanità cui il cristiano è chiamato (1Gv 2,15-16). Il passo genesiaco, in particolare, può essere collocato nel suo contesto più ampio, in modo da consentire qualche considerazione sulla motivazione profonda che spinge l’essere umano a peccare.
a) La paura della morte e la philautía
La tentazione e il peccato sono certamente da porre in relazione con l’ambiente storico, con l’atmosfera culturale e sociale in cui l’uomo è immerso, con quegli elementi che, prendendo a prestito il linguaggio paolino, si potrebbero definire «potenze dell’aria» (Ef 2,2), «principati e potenze» (Ef 6,12). Vi è però qualcosa di ancor più profondo, che attiene all’interiorità dell’essere umano. Esiste infatti in ogni uomo una tendenza egoistica, un’inclinazione peccaminosa: è quella disposizione interiore che oppone resistenza al dono di Dio, definita dal Nuovo Testamento col termine «carne» (sárx: cf. Gv 3,6; 6,63; 8,15; Rm 6,19; 7,5; ecc.), dalla quale hanno origine «i desideri della carne che fanno guerra alla vita» (1Pt 2,11). La tradizione cristiana ha efficacemente parlato in proposito di philautía, cioè di «amore egoistico di sé»: una brama perseguita a ogni costo, anche senza gli altri e addirittura contro gli altri; una preoccupazione esclusiva per il proprio interesse che induce a considerare il proprio io come misura della realtà; in una parola, tutto ciò che si oppone al desiderio di Dio, quello della comunione tra sé e gli uomini e degli uomini tra di loro.
Ma qual è il movente ultimo della philautía? Un brano della Lettera agli Ebrei lo esprime con grande lucidità:
Cristo è divenuto partecipe del nostro sangue della nostra carne, per ridurre all’impotenza mediante la morte colui che della morte ha il potere, cioè il diavolo, e liberare così quelli che, per timore della morte (fóbo thanátou), erano soggetti a schiavitù per tutta la vita (cf. Eb 2,14-15).
Si tratta di una constatazione estremamente vera: noi uomini durante tutta la vita patiamo la paura della morte, e tale esperienza ci domina, ci aliena. La morte è «il re delle paure» (melek ballahot: Gb 18,14), perché è la radice di tutte le altre paure. Essa non è solo l’ultimo istante della vita biologica, ma è una forza costantemente all’opera nella nostra vita quotidiana, che si manifesta come sofferenza, malattia, fine di ciò che per noi è vitale, al punto da causare vere e proprie situazioni di non-vita in chi biologicamente è ancora vivo.
La morte, dunque, non è solo «salario del peccato» (Rm 6,23), ma anche istigazione al peccato: è infatti proprio la paura della morte che ci spinge a cercare vita nel peccato; è la schiavitù in cui ci avvince tale paura ad essere causa del male e del peccato che commettiamo, come ci ricordano anche le parole che, con finezza psicologica, il libro della Sapienza mette in bocca agli empi (cf. Sap 1,16-2,24). In breve: mosso dalla paura della morte, l’uomo vuole preservare con qualsiasi mezzo la propria vita, vuole possedere per sé i beni della terra, vuole dominare sugli altri. Egli pensa di assicurarsi in tal modo una vita abbondante e giunge a considerare giusto ogni comportamento finalizzato a questo scopo, anche a costo di nuocere agli altri e persino a se stesso. E così finisce inevitabilmente per percorrere sentieri di morte…