Alessandro Spina: uno scrittore nascosto
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Bose, 22 febbraio 2009
Prolusione di Enzo Bianchi al Convegno memento vitae dedicato a “Alessandro Spina: uno scrittore nascosto nel deserto”, svoltosi presso il Monastero di Bose il 22 febbraio 2009.
Un saluto di benvenuto a tutti voi in questa occasione che per voi e per la nostra comunità è preziosa opportunità di gioia autentica: poterci stringere attorno ad Alessandro Spina, dirgli il nostro grazie, la nostra stima, soprattutto la nostra amicizia colma un desiderio a lungo coltivato.
Io non sono un letterato, non sono neanche uno scrittore – nonostante ci siano dei libri che portano la mia firma – e desidero semplicemente introdurre questa giornata alcune parole di stima e di amicizia nei confronti di Alessandro Spina.
Parto da una sua affermazione all’interno del libro Conversazione in Piazza Sant’Anselmo che, a mio giudizio, esprime efficacemente il nostro rapporto con lui: “L’arte di scrivere presuppone l’arte di leggere, e l’arte di leggere a sua volta reclama la difficile impervia arte di ereditare”.
Credo che questa affermazione sia di fondamentale importanza anche perché, se c’è una difficoltà odierna all’interno della nostra cultura, essa riguarda proprio l’arte di ereditare.
Qualche anno fa, in un simposio all’Università di Louvain-la-Neuve, in Belgio, dedicato alla cultura contemporanea, si era affermato con molta forza che il patrimonio che l’occidente ha ricevuto in eredità è grande ma, proprio perché sovente non si conosce l’intenzione del testatore, diventa operazione difficile l’ereditare: si verifica perciò una vera e propria rupture de memoire, non solo tra una generazione e l’altra, ma tra mondi culturali.
Ritengo che, frequentando Alessandro Spina, dobbiamo porci il problema della difficile e impervia arte dell’ereditare. Ed è con questo pensiero e questa preoccupazione che cerco allora di accostarmi semplicemente a lui e alla sua opera.
Come definire Alessandro Spina? Un esperto della solitudine e un amico del tempo.
Il deserto cui si fa cenno può avere mille aspetti: quello della solitudine, ma anche quello del venir meno lungo il cammino dei volti delle presenze amate, il deserto dell’incomprensione, dell’indifferenza, di un mondo che si disumanizza e va verso la barbarie.
Ma il deserto è il deserto, è il limite che spezza, accoglie, rivela. Se ci si nasconde nel deserto, il deserto fa apparire ciò che c’è, ne rivela tutta l’autenticità.
Come abbiamo imparato dai suoi scritti, in Spina il deserto si interseca con la difficile impresa della relazione umana, della ricerca del volto e dello sguardo: è una dolcissima consolazione quando davvero ci si incontra, un dono divino che eccede sempre ogni previsione e sorpassa tutti i fallimenti.
Conoscere Spina è entrare in uno spazio in cui si può constatare che “quando due uomini, incontrandosi, si inchinano l’uno all’altro, la civiltà è salva” (Cristina Campo). Ed è qui che Spina pratica lo spazio dell’ospitalità: un’ospitalità non solo intellettuale, ma anche “cordiale”, un’ospitalità che persegue e trascende le prospettive delineate da Massignon, del quale Spina è stato attento lettore e ben più che lettore.
Certamente Spina si iscrive nell’orizzonte di questa sapienza degli incontri in cui il deserto può fiorire per lunghissimi anni. Del resto, nel deserto si deve accettare ciò che il deserto dona: a volte miele a volte locuste, ora luce e ora solitudine, ed è luogo in cui si deve lavorare duramente.
Cosa posso ricordare io della vasta opera di Spina, consegnataci in più di cinquanta anni di lavoro? Spina narratore, saggista, traduttore, in una parola uno scrittore tra due mondi, due continenti, un uomo capace di vivere in spazi spirituali e in spazi culturali assai diversi, ma che egli sa far comunicare, di cui fa sentire ed esprime la profonda unità originaria.
Ma prima ancora va ricordato il lavoro di narratore di storie, come le straordinarie Storie di ufficiali. Spina resta un osservatore, testimone e interprete che, attraverso la ricerca di verità, riscrive un capitolo difficile come quello della presenza coloniale italiana non da storico, ma da indagatore di storie individuali: egli è capace di sondare i moti interiori, la grandezza e la miseria dell’umano, i misteriosi meccanismi degli incontri trattenendo nell’eleganza di una frase il senso dell’esistenza e della relazione, a volte dell’ingiustizia e della violenza, ma sempre il senso di ciò che rimane.
Disponiamo di due importanti volumi che raccolgono molta parte dell’opera di Spina antica e nuova: I confini dell’ombra. In terra d’oltremare (Morcelliana 2006) e Altre sponde. Tre romanzi brevi (Morcelliana 2008).
E come dimenticare la sua “ospitalità intellettuale”, cito il titolo di un suo saggio dell’82, in cui si riassume il significato della scrittura e della vita di Spina, questa ospitalità data e ricevuta nella quale si colloca l’amicizia con Cristina Campo, il loro preparare insieme l’aureo libretto, nel 1963, La storia della città di Rame, lo scriversi quelle lettere raccolte poi, sempre presso Morcelliana, nel Carteggio (2007)?
Ma il libro per molti aspetti a me più caro – del quale ebbi modo di fare una lettura a Brescia, in occasione di un incontro che voleva essere un grazie al suo lavoro – è Conversazione in Piazza Sant’Anselmo: lì non c’è solo il ritratto di Cristina Campo – carissima a noi e alla quale abbiamo dedicato un convegno nel 1998 e un incontro con Spina nel 2004 – ma anche quello dello stesso Spina, con la sua capacità di ospitalità cordiale e intellettuale.
In tutta l’opera di Spina, quello che mi ha sempre attratto e a volte perfino scosso, è la presenza di una grande umiltà: umiltà sconfinata, umiltà senza fine, la chiama così Spina, fondamento della gioia dell’incontro con l’amico, quella che costella le storie di tutta una vita e il pensare e l’amare di Spina. Questa umiltà non è semplicemente una virtù morale per lui, è una condizione in cui è possibile la creazione ed è possibile anche l’incontro.
“Ci sono amici che morendo si portano via una parte di noi”, scrive Spina. Ma questa sua affermazione mi fa aggiungere: ci sono amici con i quali si finisce per vivere insieme molte cose. Ecco io ho l’impressione di poter dire che con Spina molti di voi, molti di noi, vivono insieme. Leggendolo si sente davvero di condividere, in quella ospitalità intellettuale cordiale, una vera e propria ricerca estremamente umile, ma vera e destinata a rimanere.
Cristina Campo un giorno, sollecitata da Spina su un possibile confronto con altre vicende letterarie di scrittori, rispose: “Ma che importa? È il nostro lavoro che conta, non il loro”.
Ecco io credo che questo sia possibile ripeterlo per Spina: ciò che conta davvero è il suo lavoro ed è questa nostra frequentazione, questa nostra ospitalità cordiale con lui.
Ad Alessandro Spina un grande grazie, da parte mia e della comunità tutta.
Enzo Bianchi