Théologie du labeur ascétique
Il podvig ascetico come vita in Cristo
A questo punto è necessario comprendere che cosa significhi per i cristiani la deificazione della natura umana di Cristo.
Il primo passo che non astrattamente ma oggettivamente unisce noi a Cristo è quello che compiamo nel sacramento del battesimo. Nella lettera di Paolo ai Romani, che viene letta durante il rito battesimale, si dice: “Se infatti siamo stati completamente uniti a Lui con una morte simile alla Sua, lo saremo anche con la Sua risurrezione” (Rm 6,4). In queste parole, proprio come nella triplice immersione del battezzando nell’acqua, vediamo che la partecipazione attiva a Cristo avviene attraverso la nostra personale partecipazione alla Sua morte e risurrezione. Più avanti l’apostolo sviluppa questo pensiero: “Così anche voi consideratevi morti al peccato, ma viventi per Dio, in Cristo Gesù” (Rom 6,11) Partecipi del Corpo di Cristo nel sacramento del Battesimo e della Cresima, siamo chiamati ad assimilare e ravvivare i doni dello Spirito Santo che abbiamo ricevuto. In questo è racchiuso il podvig ascetico del pentimento, in greco metànoia, che significa “cambiamento di mente”. “Il nostro uomo vecchio” (Rm 6,6) nel pentimento trasforma il proprio pensiero, per acquisire il diritto di dire, con l’apostolo Paolo: “Ora noi abbiamo il pensiero di Cristo” (I Cor, 2,16).
Ne consegue che il senso della nostra azione ascetica non consiste nello sviluppare le capacità dell’“uomo vecchio”, ma nell’acquisire una nuova umanità in Cristo. Il cammino verso questa umanità si compie nella lotta alle passioni, che costituiscono proprio l’essenza menzognera dell’uomo vecchio. Il pentimento è considerato come una morte, in rapporto alla necessità di rinunciare al modo di vita dell’uomo vecchio, che in ultima analisi è chiuso in se stesso. Credo sia giusto definire questo modo di vita (dell’uomo vecchio) come individualista, tanto più se si tiene conto del significato della parola latina individuum, cioè indivisibile, a se stante. L’origine dell’individualismo sta nel desiderio dell’uomo di essere lui stesso un dio, non di essere insieme al Creatore; così egli è affetto dalla sete di sottomettere a se il mondo, ma senza trovarsi in un determinato grado di una gerarchia stabilita da Dio; è volto a mitigare la paura di perdere il potere personale di fronte alla necessità di condividerlo con le altre anime all’interno di quella gerarchia.
“L’uomo vecchio” si protegge da questa paura con il proprio orgoglio. Questa tentazione funge da catalizzatore per la moltitudine di tutte le altre passioni e crea nella coscienza dell’individuo l’illusione di essere pari a Dio. In tale stato l’uomo non è capace di compiacersi della verità (1 Cor 13,6), cioè non è capace di amare un altro uomo. Infatti per lui un altro uomo è sempre una minaccia alla sua propria sovranità. In questo meccanismo di orgoglio la coordinata “l’altro” diventa oggetto di invidia, di irritazione e di odio, vizi che nella cecità spirituale spesso vengono considerati manifestazioni di un carattere forte. Istituendo la Chiesa, il Signore ha dato inizio a una diversa logica dei rapporti interpersonali. Ricordo le parole della preghiera liturgica al momento della frazione dell’Agnello, che esprimono chiaramente questa logica:
“Viene frazionato e diviso l’Agnello divino, frazionabile e indivisibile, sempre mangiato e mai consumato, ma santificante per coloro che ne partecipano”.
Qui vediamo la confutazione dell’individualismo, per il quale la divisione è simile alla morte. E insieme c’è qui un paradosso: l’Agnello Divino viene frazionato e al tempo stesso rimane indivisibile. Viene mangiato, ma esso non si consuma. In questo sta il paradosso della vittima, la paradossalità del sacrificio come forma di pensiero e modo di vita. Così il dare diventa sorgente del ricevere, e la morte l’inizio della nascita. Seguendo questa logica, noi ci asteniamo dall’assecondare il nostro “io”, comunque si esprima questo assecondare: sotto forma di emozioni psichiche o nella aspirazione alle comodità materiali. Il senso di questo astenersi è il Signore stesso: noi rinunciamo a qualcosa al fine di fare spazio in noi alla Grazia divina. Questo astenersi, insieme al tendere della volontà verso Cristo, si chiama “digiuno”, che secondo il beato Giovanni Climaco è “causa del distacco dalle passioni, risoluzione dei peccati, porta del paradiso e godimento celeste”.
Tuttavia il digiuno produrrà frutti solo quando sarà unito al discernimento. Il discernimento, come una lancia affilata, deve troncare le passioni e aprire all’anima pentita il suo stato autentico. Possiamo dire che con il digiuno è la nostra carne che viene offerta come culto razionale a Dio (cf. Rm 12,1). La parola russa plot’ (carne) ha la stessa radice dell’aggettivo plotnyj (denso, compatto) che in questo contesto si può intendere come impenetrabile alla luce. In tal modo lo smembramento dell’uomo carnale con la lancia del digiuno “razionale” (con “discernimento”) fa sì che la carne diventi penetrabile per la luce della Grazia divina. Comprensibilissime diventano allora le parole del monaco sinaita Giovanni Climaco riguardo al digiuno, che è “lampada nella tenebra, ritorno dell’errante sulla giusta via, illuminazione di chi non vede”.
Separando il buono e il cattivo nella propria anima, possiamo di nuovo raccoglierla in unità. E questa novità riguarderà anche le passioni in quanto forze della nostra anima. Infatti le passioni sono un male e portano sofferenza quando sono generate dalla natura umana peccatrice. Ma esse possono e devono avere un orientamento buono nelle loro azioni. Non a caso nella letteratura ascetica vi è l’espressione “passione scevra di passioni”. Con tale formula si indica un tendere dell’uomo a Dio che non sia oscurato dall’orgoglio. Come il dono della vittima è accompagnato dallo spargimento di sangue, il sacrificio spirituale è accompagnato dallo spargimento di lacrime su se stessi e sul mondo. I destini del mondo e dell’uomo sono legati da tali inconfessabili legami, da tali sottili fili e pesanti catene che nessuno oltre a Dio può attingere la loro essenza onnicomprensiva. Così, condividendo se stesso nel sacrificio ascetico a Dio, l’individuo incontra il Dio Risorto, che nell’abbraccio ha allargato davanti a lui le sue Mani trafitte e che gli si rivolge con le parole: “Sei stato fedele nel poco, ti darò autorità su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone” (Mt 25,21). “La gioia del padrone” è la gioia della risurrezione e della immortalità, è l’eternità condivisa dal Creatore con tutti; l’eternità in cui, secondo le parole di Paolo, “Cristo è tutto in tutti”(Col 3,11). In tal modo l’ascesi non è una fuga dell’uomo dal mondo. Nell’ascesi l’uomo si fa partecipe a Cristo, la cui natura umana è identica alla natura di ciascuno di noi. Questo significa che la partecipazione a Cristo di un uomo ha nella sua prospettiva l’unità nel Corpo di Cristo di tutta l’umanità trasfigurata.
Le parole di San Serafino di Sarov: “Acquisisci uno spirito di pace, e migliaia si salveranno intorno a te” acquistano allora un senso non solo morale, ma profondamente ontologico. L’esortazione di Nicola Cabasila a glorificare Dio per amore di Dio stesso ci riporta nuovamente al fatto che il podvig ascetico non è un fine in se stesso dell’esistenza umana, ma un cammino che conduce dall’umanità alla divino-umanità. Così la triade evangelica “via, verità e vita” si rivela nello stesso Signore nostro Gesù Cristo, a Lui gloria nei secoli. Amen.
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XVIIe Colloque œcuménique international