La paternité spirituelle: éléments bibliques
1. La paternità spirituale nell’Antico Testamento
Il primo esempio biblico di un uso figurato dell’appellativo «padre» è attestato a proposito di Giuseppe, definito «padre (‘av)
per il faraone», cioè, come si specifica subito dopo, «signore su tutta
la sua casa e governatore di tutto il paese d’Egitto» (Gen 45,8). La
sua saggezza e la sua intelligenza nell’interpretare i sogni fanno di
Giuseppe, benché molto giovane, una guida per il re, che si rivolge a
lui riconoscendolo abitato dallo Spirito di Dio (cf. Gen 41,38).
Ma il primo rapporto tra padre e figlio spirituale, anche se i termini non appaiono esplicitamente, è quello tra Mosè e Giosuè.
Giosuè figlio di Nun viene presentato come «il giovane servo di Mosè,
che non si allontanava mai dalla tenda dell’incontro» (cf. Es 33,11).
Quale segno di una nuova nascita Mosè gli cambia il nome, da Osea a
Giosuè appunto (cf. Nm 13,16). E come lo aveva portato con sé sul Sinai
al momento di entrare nell’intimità con il Signore (cf. Es 24,13), così
lo eleggerà quale suo successore nella missione di guida di Israele: su
Giosuè infatti – dice la Scrittura – riposa lo Spirito e Mosè per
ordine di Dio gli impone le mani, facendolo partecipare della sua
autorità, affinché la comunità del Signore non sia un gregge senza
pastore (cf. Nm 27,15-20).
In questo rapporto tra Mosè e Giosuè sono già presenti in nuce gli elementi fondamentali di una relazione di paternità spirituale: Mosè trasmette a Giosuè gli ordini di Dio, rendendolo intrepido e coraggioso (cf. Dt 3,21-28); gli assicura che il Signore camminerà davanti a lui, non lo lascerà e non lo abbandonerà (cf. Dt 31,8); e al termine della Torah si legge: «Giosuè era pieno dello spirito di sapienza, perché Mosè aveva imposto le mani su di lui; i figli di Israele gli obbedirono e fecero quello che il Signore aveva comandato a Mosè» (Dt 34,9). Ascoltando Giosuè ormai si ascolta Mosè: ecco la trasmissione, l’autentica traditio da padre a figlio, che ispirerà il celebre assunto con cui si aprono i Pirqè Avot: «Mosè ricevette la Torah dal Sinai e la trasmise a Giosuè, Giosuè agli anziani, gli anziani ai profeti, e i profeti la trasmisero agli uomini della grande assemblea» (Mishna Avot 1,1)…
All’interno di questa relazione mi pare significativo notare anche la presenza di quella che potremmo chiamare correzione paterna.
Giosuè è stizzito per l’estensione del carisma spirituale-profetico a
Eldad e Medad, che profetizzano nell’accampamento senza essersi recati
all’assemblea comune nella tenda, ma Mosè gli risponde risolutamente:
«Sei tu geloso per me? Fossero tutti profeti nel popolo del Signore e
volesse il Signore dare loro il suo Spirito!» (Nm 11,29). Questa
divergenza mostra con chiarezza che in una relazione di accompagnamento
spirituale il padre ha il grave dovere di correggere il figlio,
mostrandogli la centralità della volontà di Dio: egli deve farsi
tramite di quell’amore di Dio per tutti gli uomini che travalica ogni
chiusura frutto di un cattivo zelo, sovente rinfocolato dagli
entusiasmi giovanili…
Se con Mosè e Giosuè si ha il prototipo della relazione maestro-discepolo, tale relazione si fa manifesta nel caso di Eli e Samuele.
Eli, sacerdote a Silo, è testimone della preghiera bisbigliata tra le
lacrime da parte di Anna, una donna sterile salita al santuario per
chiedere un figlio. Costui non sembra molto dotato del carisma del
discernimento, se è vero che interpreta il movimento delle labbra di
Anna come dovuto a uno stato di ubriachezza; tuttavia, dopo averla
ascoltata, nella sua funzione istituzionale le impartisce la
benedizione (cf. 1Sam 1,9-18). In seguito, al compimento della
preghiera di Anna, Eli accoglie Samuele appena svezzato quale «ceduto
al Signore per tutti i giorni della sua vita» (1Sam 1,27) e lo tiene
accanto a sé, istruendolo e facendolo crescere.
I figli carnali di Eli sono degeneri e invano l’anziano sacerdote li ammonisce, senza riuscire a distoglierli dai loro peccati contro il Signore. Tuttavia nella sua sventura è consolato da un altro figlio, il giovane Samuele, che «continuava a servire il Signore sotto la sua guida» (1Sam 3,1). Siamo in un tempo in cui, annota il narratore, «la parola del Signore è rara» (ibid.); ovvero, Dio continua sempre a donare con premura la sua Parola, ma gli uomini sono duri di cuore, non vogliono accoglierla e obbedirle con la loro vita. La pagina che si apre a questo punto è assai nota. Mentre Samuele dorme presso l’arca del Signore, per tre volte si sente chiamare per nome, e ogni volta si alza e va dal sacerdote Eli, pensando che sia stato lui a chiamarlo. Solo alla terza volta Eli comprende e gli dice: «Se ti si chiamerà ancora, dirai: “Parla, Signore, perché il tuo servo ti ascolta”» (1Sam 3,9). È un’affermazione straordinaria che riassume in sé mirabilmente il movimento della preghiera e, più in generale, della nostra relazione con Dio quale ci viene rivelata nelle Scritture: l’ascolto è già preghiera e ha un primato assoluto in quanto riconosce l’iniziativa di Dio, il fatto che la nostra vita non sia che una risposta costante alla sua chiamata sempre preveniente.
Eli, «pur se fa fatica perché evidentemente non ha mai fatto l’esperienza personale di Dio» (Carlo Maria Martini), tuttavia nella sua povertà compie l’essenziale: si fa mediatore della parola di Dio per Samuele e lo aiuta a discernerla. Sì, l’importante è che il padre spirituale assuma la propria debolezza e ne sia cosciente; se è disposto a fare questo e a mettersi con fedeltà al servizio del Signore e del discepolo, anche attraverso la sua pochezza il Signore farà passare la sua voce. Di più, Eli si sottometterà pure alla dura parola di giudizio pronunciata da Dio sulla sua famiglia per bocca di Samuele (cf. 1Sam 3,11-14.18), umiliandosi fino a farsi discepolo di colui che aveva definito «figlio mio» (benì: 1Sam 3,6.16). «Samuele acquistò autorità poiché il Signore era con lui, né lasciò andare a vuoto una sola delle sue parole» (1Sam 3,19): così si conclude il brano, attestando la qualità profetica di Samuele (cf. 1Sam 3,20). Certo, è il Signore ad averlo costituito profeta, ma a Eli va il grande merito di aver compiuto ciò che più tardi Palamone esprimerà così al giovane Pacomio: «Sarò pronto nei limiti della mia debolezza a soffrire con te finché tu conosca te stesso» (Vita bohairica di Pacomio 10).
L’ultimo esempio veterotestamentario che vorrei analizzare è costituito dalla relazione di paternità spirituale di Elia nei confronti di Eliseo.
Nello sviluppo della profezia in Israele il Signore suscita con il suo
Spirito delle forme di paternità diverse da quelle «istituzionali»,
come potevano essere quella di Eli o dei giudici: il capo di una
corporazione profetica, che ne era allo stesso tempo il padre
«spirituale», veniva chiamato ‘av, padre, nella consapevolezza
che il vero padre non è colui che genera fisicamente, ma colui che
educa e istruisce il discepolo sulle vie del Signore (cf. Esodo rabbah 46,5).
Elia il tisbita, «uomo di Dio» (2Re 1,9), subito dopo l’incontro con il
Signore sul monte Oreb (cf. 1Re 19,9-18) chiama Eliseo alla sua
sequela, gettandogli sulle spalle il mantello, segno della sua qualità
profetica, mentre questi sta arando un campo. Il suo è un gesto
subitaneo e istituisce l’unico esempio esplicito di sequela di un uomo
a un altro uomo attestato nell’Antico Testamento. Il testo è
estremamente scarno, a testimonianza del fatto che è la parola di Dio,
sovrana e pienamente efficace, a suscitare la chiamata e a sostenere la
risposta. Eliseo, congedatosi dalla famiglia e dal lavoro, «si alza e
segue Elia, entrando al suo servizio» (cf. 1Re 19,21), «versandogli
l’acqua sulle mani» (cf. 2Re 3,11), cioè condividendo con lui
l’intimità di una vita comune. Quest’ultima annotazione conosce un
commento significativo nella tradizione rabbinica:
R. Jochanan disse a nome di r. Shimon ben Jochaj: «È più importante la pratica della Torah che non il suo studio teorico, secondo quanto fu detto: “Eliseo, figlio di Safat, versò acqua sulle mani di Elia” (2Re 3,11). Non si dice: “Studiò”, ma “Versò”; da qui risulta che la pratica è più importante dello studio teorico». (Talmud babilonese Berakot 7b)
In altri termini, come diranno a più riprese i padri del deserto, è la condivisione quotidiana dell’esistenza la fonte più sicura di insegnamento per il discepolo; spesso si impara più da un’attenta osservazione dei gesti del padre che non da tante parole, perché la sua stessa vita è messaggio: «Abba, a me basta vederti!»… Anche per questo – credo – dopo il racconto della vocazione di Eliseo non ci è narrato nulla di preciso a proposito del servizio prestato dal discepolo presso il grande profeta.
La loro vicenda trova però un compendio paradigmatico al momento del congedo, quando Elia è rapito da Dio in cielo in un carro di fuoco (cf. 2Re 2,1-18). In quel frangente Eliseo grida rivolto a Elia: «Padre mio, padre mio, carro di Israele e sua cavalleria!» (2Re 2,12) e, per averne contemplato l’ascensione, riceve in cambio una doppia parte dello spirito del profeta: questa era infatti la parte che spettava al figlio primogenito nella divisione dell’eredità paterna (cf. Dt 21,17). Il passaggio di consegne tra Elia ed Eliseo è nuovamente significato dal mantello raccolto da quest’ultimo, pegno della continuità del ministero carismatico e dell’identità della funzione (cf. 2Re 1,8; 2,13). Così Eliseo da figlio diventa padre spirituale per tutto Israele, che attraverso il re Ioas gli rivolgerà lo stesso titolo da lui riservato a Elia: «Padre mio, padre mio, carro di Israele e sua cavalleria!» (2Re 13,14). E i presenti, vedendo Eliseo aprire le acque del Giordano con un colpo del mantello, devono riconoscere: «Lo spirito di Elia si è posato su Eliseo!» (2Re 2,15). Ecco una definizione sintetica della paternità spirituale: il padre trasmette al figlio il proprio spirito, inestricabilmente connesso con lo Spirito di Dio, fonte di vita in abbondanza e vero protagonista della vita spirituale.