La paternité spirituelle: éléments bibliques
2. La paternità spirituale nel Nuovo Testamento
Su questo sfondo veterotestamentario, cui si potrebbero aggiungere alcuni passi tratti dalla letteratura sapienziale – si pensi, per es., a Pr 4,1-2: «Ascoltate, o figli, l’istruzione di un padre e fate attenzione per conoscere la verità, poiché io vi do una buona dottrina; non abbandonate il mio insegnamento» – si comprendono meglio le relazioni di paternità spirituale implicite in molte pagine del Nuovo Testamento.
Il Nuovo Testamento si apre presentando, pur in modo molto sobrio, la funzione di paternità spirituale svolta da Giovanni il Battista nei confronti di Gesù, definito dal Precursore «colui che viene dietro a me» (opíso mou: Gv 1,15.30), con un’espressione tecnica che indica appunto una relazione di discepolato. Gesù sembra dunque aver seguito Giovanni come discepolo per un certo tempo, fino a farsi battezzare da lui (cf. Mc 1,13-17 e par.).
Quanto alla relazione di Gesù con i suoi discepoli, va innanzitutto notato che la sua chiamata rivolta ai dodici affinché abbandonino casa, famiglia e campi per «stare con lui» (cf. Mc 3,14) rinnova e radicalizza quanto era stato vissuto da Elia ed Eliseo: questa volta non c’è nemmeno più il tempo per congedarsi da quelli di casa. Gesù si rivolge talvolta ai suoi discepoli chiamandoli «figli» (tékna: Mc 10,24) o «piccoli figli» (teknía: Gv 13,33; paidía: Gv 21,5), così come farà anche Giovanni verso i cristiani della sua comunità (teknía: 1Gv 2,1.12.28; 3,7.18; 4,4; 5,21). Ma a prescindere da questi pochi esempi, tutta la vita comune di Gesù con i suoi può essere interpretata come un paziente lavoro mediante il quale egli cerca di narrare loro il volto di Dio e di generarli quali «figli del Padre che è nei cieli» (Mt 5,45), «figli del Regno» (Mt 13,38): nessuna autoreferenzialità da parte sua, ma la chiara coscienza di avere tutto ricevuto dal Padre e, di conseguenza, la gioia di restituirgli ogni cosa e ogni relazione. È dunque con grande intelligenza che l’autore della Lettera agli Ebrei può mettere in bocca a Gesù asceso al cielo le parole del profeta Isaia: «Ecco, io e i figli che Dio mi ha dato» (Eb 2,13; cf. Is 8,18), le quali a loro volta daranno origine a una tradizione patristica confluita, com’è noto, nel passo della Regula Benedicti in cui l’abate è detto fare le veci di Cristo (cf. II,1-3).
Ora, è vero che Gesù nel vangelo secondo Matteo afferma con forza: «Non
chiamate nessuno “padre” sulla terra, perché uno solo è il Padre
vostro, quello del cielo» (Mt 23,9). Una volta deprivato della sua vis polemica
dovuta alla concorrenza tra il nascente movimento cristiano e quello
rabbinico, che si serviva di tale appellativo per designare le guide
spirituali, questo detto non va inteso in senso letteralistico bensì
compreso in profondità: la fonte di ogni paternità è Dio e ogni
paternità umana, inclusa quella spirituale, discende da lui, è donata
per partecipazione alla sua. Nello stesso senso Gesù ammonisce che «uno
solo è buono» (Mt 19,17), Dio. Ma come non ci è impedito di giudicare
buone delle creature, in quanto donne e uomini abitati dalla bontà di
Dio, così ci è dato di scorgere la maternità e la paternità in credenti
che non se la arrogano indebitamente ma ne sono testimoni tra i
fratelli per dono esclusivo di Dio; in persone che, come Giovanni il
Battista, conducono altri a Cristo e poi escono di scena, pronte a
diminuire affinché Cristo cresca (cf. Gv 3,30).
Paolo non è dunque un trasgressore delle parole di Gesù, lui che più di ogni altro chiama in causa il rapporto di paternità spirituale nei confronti dei suoi discepoli.
E fa questo – non lo si dimentichi – essendo stato a sua volta generato
alla vita cristiana da Anania, che si prende cura di lui e lo battezza
dopo che Cristo gli si è rivelato sulla via di Damasco (cf. At 9,10-19;
22,12-16). Inoltre ha avuto bisogno che Barnaba lo accompagnasse
nell’opera di maturazione della fede, inserendolo progressivamente
nella comunità di Gerusalemme (cf. At 9,26-30; 11,22-30) e sostenendolo
durante le traversie del primo viaggio missionario (cf. At 13,1-15,40).
Sì, anche Paolo, che non aveva conosciuto personalmente Gesù, è stato
iniziato da altri alla vita in Cristo, da lui poi vissuta con grande
intensità e, di conseguenza, trasmessa ad altri figli…
Nelle sue lettere l’apostolo più volte allude alla sua opera di paternità nei confronti di singoli figli spirituali: parla di Onesimo come di «mio figlio (ho emòn téknon) che ho generato in catene» (Fm 10); di Tito come «mio vero figlio (gnesìon téknon) nella fede comune» (Tt 1,4). Paolo utilizza accenti particolarmente affettuosi nei confronti di Timoteo, che definisce «mio figlio amato e fedele nel Signore» (mou téknon agapetòn kaì pistòn en kyrío: 1Cor 4,17; cf. 1Tm 1,2.18; 2Tm 1,2; 2,1); di lui dice anche: «ha servito il Vangelo con me, quale un figlio con il padre (hos patrì téknon)» (Fil 1,22).
Quest’ultimo passo ci introduce a un tema centrale toccato da Paolo in relazione alle comunità cristiane da lui fondate: la sua è una paternità strettamente connessa alla trasmissione del Vangelo; ovvero, se non va trascurato lo stretto legame umano esistente tra l’apostolo e i suoi figli, nondimeno è il Vangelo di Dio e di Gesù Cristo che costituisce il metro oggettivo e determinante delle sue relazioni con loro. Questa duplice dimensione appare chiaramente in un passo della sua lettera più antica, la prima scritta ai cristiani di Tessalonica:
Siamo stati amorevoli in mezzo a voi come una madre si prende teneramente cura dei propri figli. Così affezionati a voi, avremmo desiderato darvi non solo il Vangelo di Dio, ma la nostra stessa vita, perché ci siete diventati cari … E sapete anche che, come fa un padre verso i propri figli, abbiamo esortato ciascuno di voi, incoraggiandovi e scongiurandovi a camminare in maniera degna del Dio che vi chiama al suo Regno e alla sua gloria (1Ts 2,7-8.11-12).
Paolo è dunque nello stesso tempo madre e padre per i suoi figli spirituali, e la sua autorevolezza si fonda sull’esempio da lui dato in prima persona: «lavorando notte e giorno per non essere di peso ad alcuno vi abbiamo annunziato il Vangelo di Dio» (1Ts 2,9). Chi al contrario pretende di imporre agli altri ciò che non è disposto a vivere, va inevitabilmente incontro al severo giudizio di Cristo su quanti «legano pesanti fardelli e li impongono sulle spalle degli uomini, ma non vogliono muoverli neppure con un dito (Mt 23,4)…
Ma se nel precedente passo vi era solo il paragone – «come una madre
… come un padre» –, ai cristiani di Corinto Paolo si rivolge con
un’affermazione ancor più netta: «Potreste avere anche diecimila
pedagoghi in Cristo, ma non certo molti padri, perché sono io che vi ho
generato in Cristo Gesù, mediante il Vangelo (en Christô Iesoû dià toû euanghelíou egó hymâs eghénnesa)»
(1Cor 4,15). Certamente qui l’apostolo vuole distinguere la propria
funzione da quella di quanti gli sono subentrati a Corinto per guidare
la comunità in sua assenza: questi ultimi non devono attribuirsi nulla
di più della funzione che gli spetta, quella di tutori, di precettori
incaricati solo di proseguire l’opera da lui iniziata. Ma più in
profondità queste parole rivelano la consapevolezza che abita il cuore
di Paolo: egli è reso padre dalla fecondità del Vangelo, della Parola
che per primo ha accolto in sé come seme e fonte di vita. Solo da
questo essere radicato nel Vangelo discende la sua capacità di chiamare
altri a una nuova nascita, di destarli alla vita secondo Dio: ecco il
«senso nascosto» ravvisato da Origene in questo passo paolino (cf. Frammenti del Commento alla Prima lettera ai Corinti [su 1Cor 4,15]).
Nessun protagonismo deve dunque animare il padre spirituale, ma la chiara consapevolezza che egli è chiamato ad essere una sequentia sancti Evangelii,
un brano vivente di Vangelo per i suoi figli. Questo comporta una dura
lotta, una fatica che può essere sostenuta nella misura in cui si ha
chiaro il fine cui si tende, come scrive lo stesso Paolo ai cristiani
della Galazia: «O figli miei, che di nuovo partorisco nel dolore,
finché non sia formato Cristo in voi (méchris hoû morphothê Christòs en hymîn)»
(Gal 4,19). Ecco lo statuto paradossale della paternità spirituale: il
padre soffre per una gestazione di Cristo che spetta al figlio
condurre, una gestazione che può anche essere lunga e travagliata. Ma
prima o poi viene il giorno in cui il parto si compie: quando il figlio
diviene «un uomo maturo, nella misura che conviene alla piena maturità
di Cristo» (Ef 4,13), allora il padre deve farsi umilmente da parte. Il
suo compito è terminato: da quel momento sarà Cristo, il terzo in ogni
relazione di paternità spirituale, a guidare in prima persona il
figlio, a condurlo nel cammino della vita.