Spiritual Paternity and Contemporary World
XVI International Ecumenical Conference
The final lecture given by
Metropolitan SERAPHIM of GERMANY
XVI INTERNATIONAL ECUMENICAL CONFERENCE
Bose, 21 settembre 2008
Poiché uno studio approfondito su questo tema, “La paternità spirituale e il mondo contemporaneo”, richiederebbe un’ampia informazione sulla vita della chiesa sia in oriente che in occidente, a causa della mancanza di tempo per una tale ricerca nella mia presentazione farò soprattutto riferimento alla chiesa ortodossa in Romania. Sono tuttavia convinto che il caso della Romania e della sua chiesa ortodossa, largamente maggioritaria, non sia isolato e che la tradizione della paternità spirituale sia la stessa, più o meno viva, in tutte le chiese ortodosse locali. L’occidente, invece, ha conosciuto a questo riguardo una sorta di “rottura della tradizione” (dom Silvano); tuttavia la paternità spirituale resta una realtà, per quanto diminuita nel monachesimo, soprattutto benedettino. L’importanza attribuita in occidente alla Regola – penso – ha indebolito il ruolo del padre spirituale. Se si fa costantemente riferimento alla Regola, se questa è costantemente letta durante il capitolo, essa prende impercettibilmente il posto del padre spirituale. Questo può anche avere un aspetto positivo: quando i padri spirituali mancano, in qualche modo è la Regola a rimpiazzarli. Perciò, sottolinea il padre Theofil del monastero di Sambata, in occidente più che a un padre spirituale i giovani fanno riferimento a una comunità. Il ruolo della comunità è importante, perché qui si può fare esperienza della comunione. La comunità monastica e quella parrocchiale sono simili: hanno lo stesso scopo pur con mezzi diversi. In oriente, dove la Regola non è quasi conosciuta, la penuria di padri spirituali può danneggiare gravemente la vita monastica.
A questo punto, vorrei citare anche il padre Placide Deseille, che nel suo libro Nous avons vu la vraie lumière (L’Age d’homme 1990) ci dà questa valutazione del monachesimo come fonte di paternità spirituale: “Il monachesimo non è mai divenuto una semplice istituzione: una catena ininterrotta di autentici spirituali gli ha preservato il suo carattere profetico, ovunque è rimasto fedele a se stesso. Il monachesimo occidentale non fa eccezione: i testi del monachesimo di san Martino, di Lerins, celtico, i Dialoghi di san Gregorio Magno, la Regola di san Benedetto, l’agiografia medievale riportano la stessa testimonianza” (pp. 91-92).
Perciò il padre Deseille conclude: “Sino a oggi, nella chiesa cattolica di occidente il monachesimo è rimasto il luogo ove il radicamento di questa chiesa nelle tradizioni comuni dell’epoca patristica è restato più percettibile” (p. 91).
Dopo queste osservazioni preliminari, vorrei cominciare la mia relazione presentandovi il ritratto spirituale di uno dei più grandi “spirituali” della Romania del xx secolo, il padre Paisij di Sihla, morto a 93 anni nel 1990, nel monastero di Sihastria da cui dipende lo skiti di Sihla. Questo ritratto fu scritto dal metropolita Antonio di Transilvania (morto nel 2005), discepolo del padre Paisij, e fu pubblicato nella Eastern Church Review 2 (1969), fascicolo 4, pp. 377-379 e in Traditie si libertade in spiritualitatea ortodoxa, Sibiu 1983, pp. 216-219.
Il padre Paisij è “in qualche modo un Serafim di Sarov della spiritualità romena. I fedeli lo chiamano Parintele Pustnic, il Padre Asceta. Eppure non è un eremita nel senso stretto. Vive in una comunità. Un po’ isolato ma non fuori dalla comunità. L’appellativo di Pustnic si riferisce piuttosto alle sue qualità interiori. Lo skiti dove vive è un po’ ai margini, a 15 o 20 km dal villaggio più vicino, ma sulla via dei turisti. C’è una cella, sotto una parete rocciosa, nelle cui vicinanze c’è una piccola chiesa costruita con il legno di un solo abete; tutte e due sono in prossimità dello skiti di Sihla, delle sue celle e della sua chiesa.
Non si saprebbe dire con precisione quale sia il dono specifico del padre Paisij. Non compie miracoli. Non predica; nessuno lo ha ascoltato predicare in chiesa. Non è neppure un bravo cantore, come celebrante non è dotato; ha una voce tenue, benché chiara e gradevole. Malato più che sano. A sessant’anni sembrava averne ottanta; ora che ne ha ottanta sembra averne però sessanta. Non è né teologo né diplomato o licenziato in una qualsiasi disciplina.
Eppure ha qualcosa che avvince. Ha la grazia. Ha il dono di attirare, di ispirare fiducia e di trovare sempre le risposte migliori ai problemi e alle domande più difficili. Ha calore e amore per gli uomini. La sua porta è aperta per tutti. E se qualcuno gli porta un dono, lo offre al visitatore successivo. È molto spirituale perché è molto umano. Sospira tutto il tempo dopo l’esichia e la solitudine ma nessuno lo ha mai sentito lamentarsi del rumore prodotto da tanti turisti. Il dovere della sua vita è essere “l’uomo per gli altri”.
Il padre Paisij è sempre ferito dai dolori, dalle sofferenze, dalle malattie delle persone, dal numero enorme dei loro peccati ma, nello stesso tempo, è sereno, pieno di benevolenza, indulgente, compassionevole e clemente. Chi entra nella sua cella ne esce deciso a cambiare vita; ritrova la fede e la fiducia e ricentra la propria vita su Dio e sulla sua Parola. Il miracolo che tutto ciò accade grazie a padre Paisij. Nessuno sa se egli sia consapevole di questi miracoli. Forse no, forse sì, nella misura in cui sa di ridare fiducia a chi l’ha persa. Egli gliela ridona innanzitutto con la fede che la speranza rinascerà in essi. Ma per lui tutto questo appartiene all’ordine della natura, alle cose normali ed evidenti. Accoglie le persone al punto in cui si trovano e le colloca sulla via che devono seguire; ed esse lo seguono.