Abbiamo l'umanità in comune
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Il meglio dell’altro è ciò che egli ci consegna nella fiducia. Ma perché ciò accada, dobbiamo attendere qualcosa da lui. Non c’è, in effetti, dialogo vero né possibile se non si attende niente dall’altro. Ora, questo ha senso solo confessando in sé una mancanza, un’incompiutezza o, meglio, un’insufficienza. L’esperienza dell’amore, l’esperienza più fondamentale ed universale che ci sia, lo insegna a ciascuno di noi. La sufficienza nega l’altro, o assimilandolo a sé in quanto cosa nostra o negandolo con il rifiuto stesso di vederlo. Accogliere l’altro senza ridurlo al proprio bisogno è vivere nel desiderio scavato da una mancanza fondatrice, da un’apertura …
Il dialogo si appoggia su questa convinzione: abbiamo l’umanità in comune, l’umanità che ci è data e, più ancora, l’umanità come qualcosa di fragile su cui occorre vigilare, l’umanità come compito da adempiere. Ogni essere umano, ogni cultura porta in sé un volto dell’umanità messo in pericolo dal solipsismo o dall’uniformità. Il dialogo, invece, inscrive nell’umanità la coscienza che ciascuno non vive che grazie alla sua relazione con gli altri, e suggella il carattere simbolico di ogni umanità. Ciò dice la necessità per ogni essere umano di accettare questa mancanza costitutiva che fonda la sua capacità di entrare in alleanza o in solidarietà e, perciò, di nascere alla propria identità …
Dobbiamo accettare che il dialogo ci alteri. Nei due sensi della parola: ci mette sete dell’incontro con l’altro e ci cambia anche. Inoltre, il dialogo fa nascere altre domande, apre altre prospettive e chiama ad altri incontri. Ma soprattutto c’è un effetto di ritorno del dialogo su di sé, sul nostro modo di interpretare l’umanità, di vivere la nostra fede e di comprenderla. Non si esce dal dialogo come si è entrati. Non solo, come è evidente, si impara qualcosa dell’altro, si è introdotti a nuovi sguardi sull’uomo, si è raggiunti da nuove domande; ma anche, ed è la cosa più difficile da vivere, si diviene altro.
