Nelle mani degli uomini
27 settembre 2025
Il vangelo oggi, nella sua brevità, ci aiuta a cogliere la contraddizione radicale che esso è per il nostro modo di pensare, per chiamarci a cambiare mentalità e ad assumere il pensiero di Gesù.
Il vangelo oggi, nella sua brevità, ci aiuta a cogliere la contraddizione radicale che esso è per il nostro modo di pensare, per chiamarci a cambiare mentalità e ad assumere il pensiero di Gesù.
Il brano che ascoltiamo oggi segue la moltiplicazione dei pani, il miracolo a cui hanno partecipato le folle e ora Gesù inizia la sua salita a Gerusalemme. Gesù inizia il suo cammino verso il compimento della sua vita, si ritira in preghiera, in un luogo solitario, in un luogo-tempo di intimità con il Padre, e i suoi discepoli lo accompagnano.
Il vangelo di oggi segue l’invio in missione dei dodici apostoli e inizia con l’inserzione di un riferimento a Erode che è incuriosito da quanto sente dire a proposito di Gesù e si domanda perplesso: “Chi è dunque costui ?” (v. 9).
«In quel tempo Gesù disse: Ti rendo lode…». A leggere con attenzione il testo greco scopriamo che nella traduzione CEI è stata omessa una piccola parola apparentemente insignificante, che però a ben vedere insignificante non lo è affatto. Il testo originale dice: “In quel tempo Gesù, rispondendo, disse...”. Poiché prima non c’è alcuna domanda, il verbo “rispondendo” sembra fuori luogo, ed ecco che si è pensato bene di eliminarlo! Sappiamo però che non ci sono solo domande formulate a parole, ci sono anche quelle che emergono silenziosamente dalle situazioni di vita in cui veniamo a trovarci continuamente. E spesso sono proprio queste le domande a cui è più difficile dare una risposta adeguata. A quale situazione risponde dunque Gesù?
Che cosa significa essere cristiani? Andare a messa la domenica? Partecipare ad alcuni atti di culto e, forse, dedicare qualche ora alla settimana ad “opere religiose” (opere di carità, catechesi, ecc.)? Poi, per il resto la nostra vita scorre come quella di tutti gli altri esseri umani. Ѐ tutto qui?
“Voi siete luce nel Signore, camminate come figli della luce”: questa affermazione che è anche una esortazione di Paolo ai cristiani di Efeso (EF 5,8) può essere un buon commento al breve brano evangelico di oggi, brano costituito dalle ultime parole di Gesù nel discorso in parabole secondo Luca.
Abbiamo fatto talmente abitudine alle parabole – e a questa del seminatore con relativa spiegazione, in particolare – che ormai capita sovente anche a noi quello che accadeva agli “altri”, esterni alla cerchia dei discepoli di Gesù: “leggendo non vediamo cosa sta scritto, udendo non comprendiamo”. Sappiamo già tutto: chi sono i vari personaggi, il seminatore, il seme, i diversi terreni, la roccia, le spine, gli uccelli…
Gesù, Figlio dell’unzione, “profumo” (7,46) che si spande “di città in città, di villaggio in villaggio” (8,1) guida donne e uomini che “seguono le sue tracce” (Cfr. 1 Pt 2,21) verso l’ “amare più Lui della propria vita…”, l’essere capaci di “portare la propria croce” (14,26-27).
"Se costui fosse un profeta, saprebbe che è una peccatrice”. Se il segno del dono profetico fosse saper leggere questo tipo di etichetta appiccicato sulla fronte di una donna saremmo tutti profeti. Grazie a Dio non è così. Siamo tutti chiamati ad essere profeti (Nm 11,29), questo sì, ma in ben altro modo. Gesù infatti è profeta proprio perché accanto a sé non vede una peccatrice ma una donna, una donna che certo si è spesso persa per vie tortuose, ma anche una donna che sa tanto amare, una donna di fede.
Il capitolo 7 del Vangelo secondo Luca si apre con due grandi prodigi da parte di Gesù: il servo di un centurione viene guarito e il figlio unico di una vedova viene “rialzato”, morto è richiamato alla vita. Nel “villaggio della consolazione” (Cafarnao) e in quello “ridente” (Nain) Gesù immette vita, spande profumi di resurrezione, genera ricominciamenti.
Alla porta di un villaggio di nome Nain si incontrano due cortei che provengono da direzioni opposte, l’uno esce dall’abitato per condurre a sepoltura un morto, l’altro viene da lontano per entrarvi. Si incrociano un corteo di morte e un corteo di vita, tra di loro una bara. Gesù, i suoi discepoli e la folla al loro seguito si trovano di fronte a una scena straziante, una donna vedova che piange il figlio unico, un ragazzo o poco più, accompagnata in questo dolore da molta gente. La vita da lei data ha lasciato il posto alla morte da lei non voluta, una inesorabilità inerente alla condizione umana.
Indaffarati nelle nostre vite segnate da impegni e scadenze, spesso troviamo più comodo incasellare persone e gesti nei nostri schemi mentali anziché lasciarcene smuovere: altrimenti, non metteremmo a rischio proprio quegli impegni e scadenze?
Le parole di Gesù sono chiare, plastiche, profondamente radicate alla realtà. Sono le parole di un uomo acuto osservatore della natura e profondo scrutatore del cuore umano. Sono le parole di un uomo che ha vissuto nella sua pelle ciò che ha espresso con la bocca. È lui l’albero buono che ha prodotto frutto buono. È lui l’uomo buono che dal buon tesoro del suo cuore ha tratto fuori il bene proclamando l’effathà della vita.
«La cecità stava dilagando, non come una marea repentina che tutto inondasse e spingesse avanti, ma come un’infiltrazione insidiosa di mille e uno rigagnoli inquietanti che, dopo aver inzuppato lentamente la terra, all’improvviso la sommergono completamente», scriveva José Saramago nel suo romanzo Cecità, e più oltre concludeva: «ormai è chiaro, nessuno potrà salvarsi, la cecità è anche questo, vivere in un mondo dove non ci sia più speranza».
“Amate i vostri nemici”: possibile? E se anche lo fosse, considerato quel che realmente comporta, è ancora buona notizia?