“Il mio peso è il mio amore”
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14 maggio 2024
Dal Vangelo secondo Giovanni - Gv 15,9-17 (Lezionario di Bose)
In quel tempo Gesù disse: «9Come il Padre ha amato me, anche io ho amato voi. Rimanete nel mio amore. 10Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore. 11Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena.12Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi. 13Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici. 14Voi siete miei amici, se fate ciò che io vi comando. 15Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamato amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio l'ho fatto conoscere a voi. 16Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga; perché tutto quello che chiederete al Padre nel mio nome, ve lo conceda. 17Questo vi comando: che vi amiate gli uni gli altri.
L’amore come provenienza e mèta, come dono e comandamento, come dimora e gioia: è questo il testamento di Gesù per coloro che camminano sulle sue tracce. «Come il Padre ha amato me, anche io ho amato voi. Rimanete nel mio amore, perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena» (Gv 15,9.11).
L’amore di Cristo per gli uomini ci chiama a dimorare nel suo amore, a rimanere in esso, ad abitare in esso, cioè a trovare in questo amore il nostro centro di gravità, che attira il nostro cuore verso il suo luogo naturale. Pondus meum amor meus, scriveva Agostino: «Il mio peso è il mio amore; esso mi porta dovunque mi porto» (Conf. 13,9,10). È questo «peso» che ci dona un centro, un punto di ancoraggio, un punto di appoggio e di stabilità, così che «accade a ciascuno di essere portato là dove ha da portarlo il proprio peso, cioè il proprio amore» (Serm. 65/A,1).
Questo amore diviene nell’intimo dell’uomo un’energia generativa, che porta frutto e fa germogliare in noi la gioia, fino alla sua pienezza; una gioia, a tratti, difficile, tribolata, forse rigata di lacrime, ma una gioia che allevia la fatica, una gioia silenziosa, ma amante, che abita le nostre profondità, senza essere turbata delle onde che ci sconvolgono in superficie.
Ancora una volta, il Vangelo ci consegna una sola parola, forse diventata ormai fragile, perché logora e troppo spesso abusata: amare! Ma non c’è altra parola per esprimere la rivoluzione di quel Dio che si è fatto amore incarnato per la sua creatura, quell’amore che vince ogni cosa e ci invita a cedere all’amore (cf. Virgilio, Ecloghe 10,69).
Oggi la Chiesa, riascoltando queste parole del quarto Vangelo, fa memoria di «colui che dopo la Pasqua venne eletto al posto del traditore. Nella Chiesa di Gerusalemme furono due ad essere proposti dalla comunità e poi tirati a sorte: “Giuseppe detto Barsabba, soprannominato Giusto, e Mattia” (At l,23). Proprio quest’ultimo fu il prescelto, così che “fu associato agli undici Apostoli” (At 1,26). Di Mattia non sappiamo altro, se non che anch’egli era stato testimone di tutta la vicenda terrena di Gesù (cfr At 1,21-22), rimanendo a Lui fedele fino in fondo. Alla grandezza di questa sua fedeltà si aggiunse poi la chiamata divina a prendere il posto di Giuda, quasi compensando il suo tradimento. Ricaviamo da qui un’ultima lezione: anche se nella Chiesa non mancano cristiani indegni e traditori, spetta a ciascuno di noi controbilanciare il male da essi compiuto con la nostra limpida testimonianza a Gesù Cristo, nostro Signore e Salvatore» (Benedetto XVI).
Un fratello di Bose