La lezione del Confessore
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La battaglia teologica in senso stretto si era accesa attorno alla questione cristologica: l'equilibrio delle due nature l'umana e la divina nell'unicità della persona di Cristo, sancita dal concilio di Calcedonia (451), era stato infranto da una duplice dottrina, il monoenergismo e il monotelismo. Detto in termini più accessibili, si affermava l'esistenza in Cristo di un'unica 'energia", cioè attività, e di un'unica "volontà" (télos), naturalmente di natura divina. Quello che ai lettori di oggi può sembrare una sorta di acrobazia speculativa o di geometria teologica aveva, in realtà, alla base una robusta radice ecclesiale e politica. Da un lato, infatti, si ergevano le Chiese monofisite o miafisite, che negavano l'assetto calcedonese e facevano svaporare l'incarnazione, lasciando brillare solo la luce della divinità di Cristo. D'altro lato, c'era l'imperatore di Bisanzio che, dovendo amministrare popolazioni sia di fede calcedonese sia di tendenza monofisita, tentava con la citata duplice dottrina del monoenergismo e del monotelismo di esperire una via di compromesso.
Ma a sbarrare questa strada si era eretto Massimo il Confessore, insensibile alle adulazioni del potere e pronto a schierarsi senza esitazione col papa di Roma Martino (che alla fine sarebbe stato arrestato ed esiliato a Costantinopoli), dichiarando: «Amo i romani perché condivido la loro fede e amo i greci perché parlo la loro stessa lingua». Quella quercia non poteva essere certo piegata dal vento delle lusinghe e delle compromissioni: «E necessario parlare con chiarezza scriveva in ogni tempo, ma questo si impone soprattutto in quest'ora; occorre porsi dalla parte della verità e manifestare chiaramente la propria adesione a essa per essere giustificati dalla sincerità interiore della propria fede e salvati dalla confessione pubblica resa davanti a tutti». Ormai solo la lama che avrebbe reso muto Massimo e inabile per sempre la sua mano di scrittore poteva soddisfare le attese del potere imperiale.