Abramo e Antigone, difesa della vera carità...
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di LUCA MIELE
Luciano Manicardi, monaco di Bose e biblista, analizza con grande finezza i fondamenti biblici ma anche i risvolti antropologici della carità, illuminandola nel suo nesso inestricabile
RECENSIONI AI LIBRI E CD DI BOSE
Avvenire, 21 dicembre 2010
LUCA MIELE
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Quando in Genesi Javhé sta per scatenare la sua ira su Sodoma, Abramo – il patriarca che, nelle parole di André Neher, «inventa l’iniziativa del dialogo verticale» – ingaggia una sorta di duello verbale con Dio, fino a giungere a vere «esclamazioni indignate»: «Davvero sterminerai il giusto insieme con l’empio? ». Altra scena, e altra cultura.
Nell’«Antigone» di Sofocle, di fronte al rifiuto oppostole dal re di Tebe Creonte di dare degna sepoltura al fratello Polinice, Antigone prorompe in un grido: «io non pensavo che i tuoi decreti avessero tanto potere che un mortale potesse trasgredire le leggi non scritte e immutabili degli dei». In entrambe le narrazioni c’è uno scarto, un cuneo, una sospensione che impedisce alla legge di coincidere pienamente con se stessa.
Questo qualcosa di irriducibile alla sovranità della legge è la carità. Luciano Manicardi, monaco di Bose e biblista, analizza con grande finezza i fondamenti biblici ma anche i risvolti antropologici della carità, illuminandola nel suo nesso inestricabile, istitutivo con la giustizia: la giustizia intesa «come sofferenza di fronte all’ingiustizia ». Questa coincidenza trova piena espressione nel termine ebraico «zedaqà», nel quale confluiscono tanto la giustizia che – come nota l’autore – l’elemosina, la carità, la rettitudine, la virtù, l’equità. Eppure oggi è in atto una sorta di attacco alla carità. Da un lato il rarefarsi e virtualizzarsi delle relazioni umane, dall’altro l’affermarsi dei piccoli egoismi e delle le piccole patrie tendono a ridurre «la carità a filantropia o a beneficenza ». Nell’altro essi si sostanziano nel rigetto dello straniero, nell’esclusione del povero. Quali sono allora gli aspetti da riscoprire della carità? Primo tra tutti il suo carattere storico. La carità non vive in celestiache distanze, ma si pratica, «la si fa»: essa vive nella compromissione con il tempo storico, con l’oggi. Ciò che la certifica «è la concretezza, la visibilità, la tangibilità, la quotidianità dell’amore del fratello. La carità ha una valenza effettiva, ancor più che affettiva ». Se la carità è compromissione con il presente, essa deve saper essere «critica» e «autocritica».
Deve cioè leggere le dinamiche che tagliano il presente, a partire da quella decostruzione del diritto che oggi trova tante terribili espressioni: dalla etnicizzazione della politica alla volgarizzazione della povertà come «stigma di una malattia vergognosa». Non solo: come scrive il biblista, «un lavoro caritativo che non operi per far uscire il povero dall’esclusione diviene complice dell’emarginazione del povero e della sua strumentalizzazione ». La carità allora deve essere «profetica ed evangelica. Capace dello sdegno e dell’invettiva profetica, capace della fermezza e del rigore evangelico».
LUCA MIELE
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