Lettera agli amici - numero 5
Pasqua 1975
Questa lettera della comunità, inviata per la Pasqua del 1975, prende spunto dal decennale della conclusione del Concilio per proporre un ripensamento sulla situazione della Chiesa e constata con rammarico che, a distanza di dieci anni, il clima ecclesiale è quasi opposto a quello che si respirava alla fine dell’assise conciliare: dalle convergenze profonde e dalle speranze di allora si è passati alle delusioni e alle divergenze «quasi insanabili» di oggi. Pesa in questa diagnosi il retaggio delle lacerazioni vissute l’anno prima in occasione del referendum sul divorzio, ma anche l’acquisita consapevolezza che nella chiesa italiana prevalgono «i segni di un ritorno ai vecchi modelli» e che alla prova dei fatti l’impatto delle grandi intuizioni conciliari è stato quasi irrilevante.
Tuttavia, lungi da ogni rassegnazione, la lettera rilancia in modo semplice, con esempi e paragoni tratti dalla Bibbia, la linea di un approfondimento delle radici della fede e dell’appartenenza ecclesiale. Spesso, osserva Enzo Bianchi, «accettiamo la fede, la subiamo ma senza passione», eppure essa non è soltanto credere in verità o dogmi, ma «aderire a Cristo, seguirlo fino ad avere in noi “gli stessi pensieri che furono in Cristo Gesù” (1 Cor 2,16)», anche a caro prezzo. Chi vive questo supera divergenze e divisioni rompendo la logica delle reazioni risentite e si apre al rispetto dell’altro nella diversità delle sue esigenze e delle sue convinzioni.
Ciò vale anche per la chiesa. Talora, continua la lettera, «ci siamo dentro a questa chiesa ma col cuore di fuori». Eppure Cristo si cerca e si trova sulla nostra strada «nella chiesa e mai fuori dalla chiesa», perché è la chiesa che ci ha generati a Cristo e prolunga la sua presenza qui e ora, è attraverso la chiesa che le nostre povere vite, lacerate dalle ingiustizie, dall’odio e dalle violenze, vengono ricomposte in un solo, unico corpo: «il corpo del Signore animato dallo Spirito Santo». Questo significa fare chiesa.
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Cari amici, ospiti, e voi che ci seguite da lontano, alla vigilia di questa Pasqua, per sostenere la nostra comunione con voi, vi diamo notizie del nostro cammino e vi partecipiamo alcune considerazioni che ci sono dettate dall'attuale situazione ecclesiale.
La nostra vita continua nella sua quotidianità e nella sua ricerca di fedeltà all'Evangelo: l'inverno ci ha richiamati al silenzio, alla solitudine, a una più intensa vita fraterna, rotta soltanto dal ritmo del lavoro in città, con le sue inevitabili tensioni e i compiti personali che ci sono imposti dall'impegno politico e sindacale, e dal ministero della parola in gruppi e in comunità che ci richiedono una nostra presenza.
In questi mesi pertanto noi verifichiamo ancora una volta come il tempo dello stare almeno un poco in disparte sia sempre fecondo e ci prepari ad un più autentico e profondo incontro con gli altri, incontro che viviamo soprattutto nei mesi estivi e nelle feste, con i molti ospiti che vengono da noi.
Per quel che ancora riguarda la nostra vita, una decisione importante è stata presa nel capitolo dei primi di dicembre: la presenza della nostra fraternità in Svizzera è stata prolungata fino all'estate del 1977. Questa decisione si è resa necessaria per portare ad un certo compimento il lavoro ecclesiale iniziato tre anni fa da Daniel e Guido. Per lo stesso motivo la comunità ha anche creduto opportuno di inviare lassù Paolo che potrà cosi intensificare il lavoro pastorale iniziato da Guido presso le comunità cattoliche della Val de Travers. Dopo pochissimo tempo infatti Paolo è già stato incaricato per la pastorale dei giovani lavoratori immigrati. La messe è molta …
Ma per passare a cose che ci riguardano di più tutti insieme, c'è il fatto che, con questo, sono ormai passati dieci anni dalla conclusione del Concilio. Se ci preme di ricordare questo fatto, non è certo solo per commemorare quello che pure è stato un evento pentecostale (questo lo lasciamo fare ai morti, che prima seppelliscono e poi commemorano), ma piuttosto per cercare di cogliere l'occasione di un ripensamento sulla situazione della chiesa oggi, su ciò che è avvenuto in essa dopo questi anni.
Ora, la prima osservazione che balza agli occhi è che da quella situazione conciliare fonte di convergenze profonde e massime siamo passati all'interno della chiesa ad una situazione di profonde e quasi insanabili divergenze. Il clima in cui viviamo è un clima che si è fatto pesante: dalla speranza di allora si è caduti nello scetticismo, dalla volontà di riforme alla accettazione stanca e frustrata di una fatale irreformabilità della chiesa, dalla fede gioiosa e profetica alla paura del domani del cristianesimo, dalla volontà di riconciliazione alle tentazioni della rottura e della divisione.
A dieci anni dalla conclusione del Concilio dobbiamo costatare che ben poco è stato realizzato di quelle che sono state le sue grandi intuizioni; "al contrario, molti sono i segni di un ritorno ai vecchi modelli di chiesa. L'autorità è lontana dall'essersi fatta strutturalmente servizio; la testimonianza cristiana nel mondo torna con successo a porsi su linee trionfalistiche ed integraliste (vedi Comunione e Liberazione) contro ogni senso, sia evangelico che storico; l'ecumenismo fra le chiese cristiane ricade nella vecchia proposta ai fratelli separati di un ritorno all'ovile romano. Siamo in un anno definito di riconciliazione, ma le censure e le scomuniche imposte dall'alto che si sono consumate. alla sua vigilia non accennano in nessun modo a ricomporsi in gesti chiari di comunione.
Certamente, l'attuale situazione ecclesiale risente anch'essa profondamente dello sconvolto panorama politico-sociale non solo interno, ma internazionale, che da una realtà di "distensione" caratteristica degli anni conciliari si è tragicamente e rapidissimamente mutata in una realtà di "conflittualità permanente", di duro scontro di classe, di sempre più smascherata violenza del sistema, fino alle bombe fasciste e alle trame eversive dei nostri giorni.
Ma tutto questo, anziché attenuare, non fa che riproporre con più forza e più urgenza la necessità della riconciliazione nell'ambito della chiesa ai fini della testimonianza che ad essa è stata propriamente consegnata.
Perché il fatto della divisione non può mai essere accettato da noi cristiani come scontato e inevitabile, come fatale. Il progetto di Dio ci richiede di pregare e di impegnarci per accorciare il più possibile le distanze, e di lavorare per annullare le divisioni esistenti nelle situazioni delle comunità ecclesiali fino all'ambito delle confessioni cristiane.
Questo progetto di Dio, di riportare all'unità i figli dispersi e divisi non è finalizzato ad un neotrionfalismo ecclesiale ma tende a mostrare che Dio regna, che egli vive, che egli può salvare e ricomporre le nostre povere vite umane. E stiamo attenti, senza spendere troppe parole: questo piegarsi di Dio sull'uomo, questo venirgli in aiuto per dare un senso alla persona e all'umanità intiera è tutto contenuto nell'incarnazione, nell'aver «Dio tanto amato il mondo da dargli il suo Figlio unigenito».
Chi accetta e conosce questo nella fede non può far altro che operare per l'unità: non può far altro che sentire come Paolo che ormai « non c'è più né giudeo né greco, né maschio né femmina, né schiavo né padrone» (Gal. 3, 26 -28), non può far altro che dire con Giovanni « dobbiamo essere una sola cosa come Cristo e il Padre» (Giov. 17, 21).
Il suo impegno sarà allora un orientare tutta la vita verso strade nuove, significative, unitarie, pacifiche: perché si possa spezzare la catena delle divisioni e delle violenze. Certo a caro prezzo, se Dio ce lo chiede e se noi lo vogliamo: «Potete bere il calice che io devo bere?» chiede Gesù ai suoi discepoli e dirà: Padre «se questo calice della violenza non può passare senza che io lo beva" lo berrò dando però fine alla violenza nel subirla senza rispondere ancora, senza dar seguito a reazioni. E questo il caro prezzo del discepolo al seguito del maestro Gesù: questo è la fede costosa che non è soltanto credere in verità o dogmi ma è aderire a Cristo, seguirlo fino ad avere in noi « gli stessi pensieri che furono in Cristo Gesù» (1Co. 2, 16).
Parliamo molto di prezzo e di costo ma non vorremmo che questo inducesse qualcuno di voi a pensare alla vita di fede come una tristezza: perché è proprio in questa lucidità, in questa coscienza che la fede è gioiosa, che la fede è scoperta come accrescimento di vita per l'uomo, come forza, come crescita dell'uomo alla statura e alle dimensioni dell'uomo vero ed autentico come Dio l'aveva voluto per la gioia e la pace.
Certo la fede è un giogo ma soave e leggero e questo può dirlo soltanto chi entra e resta coinvolto da Cristo, non chi se ne sta lontano ad osservare. In questo noi cristiani in nazioni cristiane assomigliamo molto al figlio della parabola del figliol prodigo. Il figlio che è sempre restato a casa, il figlio maggiore che è sempre stato fin dalla nascita nella casa del padre che è sempre stato . nella fede ma come disinnamorato, senza gioia. Accettiamo la fede, la subiamo ma senza passione. E qui il discorso sulla fede si apre forzatamente al discorso sulla chiesa. Ci siamo dentro a questa chiesa ma col cuore di fuori. Ci chiediamo addirittura se possiamo vivere nella chiesa oggi: sempre più disarcionati da essa, sempre più perplessi, sempre più stanchi e stufi, finiamo per dar avvio ad emorragie, ad allontanamenti in cui perdiamo la chiesa e dopo poco anche la fede. Questa è l'esperienza di molti di noi oggi ma non è un nutrire sentimenti evangelici: è condannarci su cammini di impoverimento spirituale e umano. Siamo un po' tutti come san Giuseppe di fronte a Maria figura della chiesa. Come lui abbiamo bisogno di sentirci dire: « Non temere di prendere in sposa, di prenderti la responsabilità, di prenderti in carica Maria cioè la chiesa”.
Avere fede in Cristo non è avere una memoria del passato, è averlo cercato e trovato sulla nostra strada nella chiesa e mai fuori dalla chiesa. E se la fede ha un costo, anche lo stare uniti nella chiesa ha un costo. Nella chiesa ci si sta stretti ma è la chiesa che dà le risposte alle attese più profonde. Adamo era solo e stava in attesa e Dio gli diede Eva. Ciascuno di noi è come Adamo e ha bisogno della chiesa peccatrice come Eva ma anche risanata, perdonata, santa come Maria. Non temiamo di assumere la chiesa!
Ma cosa significa fare chiesa? Significa ritrovarci uniti da uomini storici separati, a motivo della razza, della condizione sociale, delle discriminazioni sessuali dell'ingiustizia, dell'odio, in un solo corpo: il corpo del Signore animato dallo Spirito Santo. La chiesa è Cristo che ci incontra qui e ora! Se non ci fosse la chiesa l'Evangelo sarebbe carta. Ricordate i pellegrini di Emmaus: la loro era una fede senza chiesa perché la chiesa non era ancora nata: vivevano di ricordi ed erano tristi, capaci solo tra loro di ripensare al passato con nostalgia. Ed era per loro vicino il buio quando hanno il coraggio di dire: « Resta con noi perché si fa sera! ». E Gesù entrò con loro per rimanere con loro. Così sentirono la chiesa, il Signore presente in quella casa, in quel sacramento!
Questa è una scoperta della chiesa; questa è la chiesa che ci ha generato a Cristo e che amiamo anche nella fangosità; ma non è col fango che Cristo ha guarito chi non vedeva?
Ma a questo punto voi direte che tutto questo è gioioso ma poi la realtà è difficile! Sì è vero: ed è stata difficile fin dall'inizio. Già nelle chiese primitive di Paolo vi erano difficoltà e si rivelano lacerazioni e tensioni simili alle nostre! Paolo ce ne presenta il quadro: « Mi riferisco al fatto che ciascuno di voi dice: lo sono di Paolo, io invece sono di Apollo e io di Cefa-Pietro e io di Cristo» (1Cor 1,12).
Paolo legge con chiarezza le divisioni esistenti: non le nega. non le nasconde, non si richiama neanche alla sua autorità di capo della chiesa locale e non invita a un compromesso umano o diplomatico perché le acque siano falsamente chete. Non vuole né dare falsa pace e unità, né usare dell' autoritarismo.
A Corinto esistevano quattro fazioni o tendenze: i progressisti collegati a Paolo, un'ala di cristiani, quasi una élite di intellettuali legati al retore e dotto Apollo, i conservatori Giudeo-cristiani che si appellavano a Pietro e, infine un gruppo di cristiani critici e carismatici che volevano rifarsi direttamente a Cristo, senza gli apostoli senza l'istituzione-chiesa. Da altri capitoli della lettera sappiamo anche che alcuni si definivano liberi e pieni di scienza e altri deboli pieni di problemi e di scrupoli riguardanti le tradizioni. Paolo fa dunque il quadro della situazione davanti a sé e ne fa un'analisi alla luce della Parola di Dio. Dinanzi a questi gruppi che si vantavano di « appartenere a» che avevano le proprie ragioni per farlo, Paolo propone loro «la perfetta unione di pensieri» che essi tutti possono ritrovare in Cristo Gesù. Paolo, condannata la situazione, propone però loro la traccia da seguire per giungere alla riconciliazione e all'unità. Dice loro: «Non vi accorgete che il vostro modo di pensare e di agire tra cristiani sconfessandovi e denigrandovi è un modo ancora carnale, un modo che fa parte della sapienza umana e mondana? ».
«Non sapete che siete tempio di Dio e che lo Spirito di Dio abita in voi?». Cioè: non sapete che fate Chiesa, tempio di Dio ciascuno di voi e che dovete in quanto tali essere vieni solo di Spirito Santo? Noi oggi continuiamo a dirci: «lo sono della Chiesa istituzionale, sto con Pietro! lo sono della Chiesa critica, sto con Apollo! lo sono della Chiesa carismatica, sono un cristiano senza Chiesa! lo sono della Chiesa di vertice, tu della Chiesa di base, e viceversa ». Ma lo Spirito giudica e condanna ancora oggi queste false appartenenze e ci porta a riconoscere che siamo soltanto sotto la signoria del Signore della Chiesa. Che cosa occorre dunque fare noi oggi, per non essere assimilati alla comunità di Corinto ed essere giudicati come essa mondani carnali non ancora adulti in Cristo? Non ci sono ricette e non c'è altro "da dire" se non le parole della Scrittura: invocare lo Spirito che bruci in noi tutto ciò che nasce nel nostro cuore per opera del diabolos, il divisore, muoverci ad un rispetto dell'altro nella diversità dei suoi bisogni e delle sue richieste vitali, non volere l'altro allineato su modelli che ci sembrano cari.
Mai accettare la diversità delle categorie perché nel popolo di Dio non ci sono gradi se non di servizio, ma accettare la diversità delle persone e dei loro carismi. Mai turbare i deboli anche in nome della libertà dei figli di Dio quando non sono discussi i principi di fede ma sono in gioco solo tradizioni umane.
Paolo chiede la libertà dalla tradizione della circoncisione ma fa circoncidere Timoteo in nome della carità (Atti 16, 3), mentre la rifiuta quando se ne fa una questione di fede nel caso di Tito (Gal. 2, 3, 5 e 5, 2).
Questo è necessario per vivere la fede e la chiesa concretamente e non in modo spiritualeggiante; questo è necessario per saper vivere gioiosamente la chiesa; questo è necessario ed è finalizzato all'unità del Corpo di Cristo. In tal modo, senza parlare molto ci sarà chi dirà: «Venite e vedete!».
Concludiamo con un canto ripetuto da un profeta della riconciliazione, un uomo divorato dal fuoco dell'unità che Cristo ha posto nei suoi credenti la veglia della sua passione, il patriarca Atenagoras:
«Beato il cristiano che considera ogni uomo per così dire come Dio dopo Dio; beato il cristiano che considera come sua la salvezza e la gioia degli altri; beato il cristiano che diventa amico e fratello di tutti. Lasciati perseguitare, ma tu non fare violenza. Làsciati condannare, ma tu non condannare. Làsciati calunniare, ma tu non calunniare. Rallegrati con chi si rallegra e piangi con chi piange: è questo il segno della purità di cuore. Soffri con quelli che soffrono. Versa lacrime con i peccatori. Dividi la gioia di chi ritorna. Sii l'amico di tutti, ma nel tuo cuore resta unito».