Prolusione di Enzo Bianchi
IX Convegno Liturgico Internazionale Bose, 2–4 giugno 2011
ARS LITURGICA
L'arte a servizio della liturgia
Organizzato dal Monastero di Bose
in collaborazione con Ufficio Nazionale Beni Culturali Ecclesiastici
della Conferenza Episcopale Italiana
Ascolta ENZO BIANCHI, Priore di Bose:
Bose, 2 giugno 2011
Amati vescovi,
stimati professori e relatori,
partecipanti a questo IX Convegno Liturgico Internazionale,
desidero rivolgere a voi tutti
il mio più sincero e caloroso saluto: benvenuti!
Il comitato scientifico di questi convegni e la nostra comunità, in ascolto di quanti partecipano a questa nostra iniziativa o la seguono da vicino, ha voluto sostare ancora sul tema «Liturgia e arte contemporanea», sul quale avevamo già iniziato a indagare e a confrontarci lo scorso anno. Più precisamente, in questo colloquio il tema è specificato come «ars liturgica», e dunque le domande che ci poniamo riguardano in modo particolare la capacità dell’arte di entrare nella liturgia: «quando l’arte è liturgica? Quando serve (inserviat) alla liturgia (cf. Sacrosantum Concilium 123)?». Come sempre nei nostri convegni il tema sarà affrontato ascoltando le diverse ottiche, le diverse tradizioni e le attuali ricerche ed esperienze presenti nelle chiese cristiane, nella chiesa cattolica ma anche nelle chiese ortodosse e nelle chiese della Riforma.
Siamo consapevoli che attualmente proprio sul nostro tema si registrano tensioni, diversità di posizioni che sovente emergono in modo conflittuale e anche scomposto. Dobbiamo prendere atto che proprio la liturgia oggi nella chiesa da luogo di comunione è diventata luogo di conflitto e che c’è anche un’incomprensione dovuta a linguaggi in atto non comuni, non condivisi nel loro significato. Non solo, spesso si registra anche una confusione, un’incapacità di essere, proprio a livello di linguaggio, coerenti con concetti e parole che sono nella grande tradizione cristiana e che soprattutto nelle sante Scritture ispirano una visione cristiana dell’arte e forgiano una liturgia autenticamente cristiana.
Per questo iniziamo il convegno con una ricerca sul «sacro», termine e concetto che negli ultimi due decenni è ritornato in auge nel confronto liturgico in modo quasi ossessivo, sebbene – va riconosciuto – quasi mai precisato nel suo vero contenuto che deve essere in ogni caso coerente con il mistero rivelato e quindi celebrato. All’inizio dei nostri lavori vorrei dunque subito tentare una chiarificazione terminologica, per aiutare ad ascoltare e di conseguenza a dialogare su questo tema.
Nella costituzione Sacrosanctum concilium sono presenti al riguardo indicazioni purtroppo non sufficientemente meditate, anzi, molto spesso dimenticate (nn. 122-130). In questi capitoli si giunge a definire «ministerium» (n. 122) il rapporto tra arte e liturgia, indicando di conseguenza che l’arte è essenziale alla liturgia, ma che essa è «ministra», è al servizio della liturgia, dunque ne è parte costitutiva, ma sempre alla condizione che essa sia capace di operare la dinamica dal «mistero» rivelato al mistero celebrato.
Per questo, essendo definita «sacra» la liturgia, si è sempre detta «sacra» anche l’arte che entra nella liturgia, ma oggi occorrerebbe specificare meglio: si dovrebbe innanzitutto operare una distinzione tra l’arte religiosa che ha per soggetto «il mondo della religione» e l’arte liturgica cristiana, perché anche l’arte religiosa – e non solo quella profana! – non sempre appare idonea a essere collocata nel sito liturgico pur essendo nobile, non sempre appare atta a concelebrare pur destando emozioni appartenenti alla sfera religiosa! Henri Matisse, sorprendendo molti, poteva giustamente affermare: «Tutta la mia opera è religiosa, ma non tutta può stare in una chiesa cristiana».
In questo senso occorrerebbe una seria riflessione sul termine «sacro» che compare spesso in Sacrosanctum concilium, almeno 15 volte nei soli nn. 122-130. Al n. 122 troviamo scritto: «Tra le più nobili attività del genere umano sono a buon diritto annoverate le belle arti, soprattutto l’arte religiosa e il suo vertice, l’arte sacra (praesertim autem ars religiosa eiusdemque culmen, ars nempe sacra)», e lo stesso paragrafo ribadisce come le opere artistiche debbano rispondere «alla fede, alla pietà e alle norme religiosamente tramandate» e risultare «adatte all’uso sacro (ad usum sacrum idonea haberentur)».
Leggendo con attenzione i numerosi passi in cui ricorre il termine «sacro/a», ci si rende conto che questo aggettivo potrebbe essere sempre sostituito dal termine «liturgico/a» e che quindi il suo uso pare legato più a una tradizione di linguaggio che a un significato specifico. Ecco perché occorre molta cautela e molto discernimento nell’uso della parola «sacro/a»: essa non va applicata con superficialità alle realtà della liturgia cristiana, onde evitare derive che rischiano di sfigurare il mistero cristiano proprio nella sua celebrazione.
Possiamo allora in modo sintetico tracciare e precisare una fenomenologia del sacro? Innanzitutto, «sacro» può indicare una realtà messa a parte, una realtà distintadall’ordinario, dal quotidiano. Per l’eucaristia, per esempio, ci si serve di un calice destinato solo all’uso liturgico, del quale non si può fare uso quotidiano a tavola: il calice non è un comune bicchiere! (Questo naturalmente non significa che l’eucaristia non possa essere celebrata – come in certe situazioni eccezionali è avvenuto – con un ordinario bicchiere da tavola). Quando cose, oggetti, spazi sono riservati e destinati alla liturgia, allora li si è detti «sacri» (spazio sacro, vaso sacro…), ma li si potrebbe definire semplicemente «liturgici».
Ma il sacro nelle religioni è legato alla trascendenza, al divino, al «totalmente altro». Dio è sacro, la sua Parola è sacra, la Bibbia è sacra. Invero, per fedeltà alla veritas hebraica occorrerebbe in questo senso parlare di «santità» (qadosh – qodesh): «Dio è tre volte santo (Qadosh, qadosh, qadosh: Is 6,3), i libri che contengono la parola di Dio sono santi, dunque santa Bibbia, libri santi…
Potremmo però riassumere il «sacro» nel comportamento dell’uomo, il «senso del sacro», come un sentimento di riverenza, di timor Domini. Questo è l’unico vero «senso del sacro», disposizione interiore assolutamente necessaria nella vita di fede cristiana e perciò fondamentale nella celebrazione liturgica. Il timor Domini non è essere schiacciati dal tremendum e dal fascinosum ma è atteggiamento di rispetto, di consapevolezza della presenza di Dio e della sua gloria. Occorre dunque fare molta attenzione rispetto al linguaggio stereotipato, abituale nella tradizione, ma sovente sinonimo non neutrale di altri termini.
Il cristiano deve essere consapevole del mutamento portato dall’incarnazione rispetto a tutto il culto da compiere davanti al Dio unico e vivente rivelato (exeghésato: Gv 1,18) da Gesù Cristo. Come ha scritto Yves Congar, Gesù «ha trasformato interamente il regime di sacralizzazione istituito in Israele … Si tratti di persone, luoghi, tempi, Gesù ha risolutamente abolito la separazione di un preteso sacro e di un preteso profano!» («Situation du sacré en régime chrétien», in Y. Congar – J.-P. Jossua [a cura di], La liturgie après Vatican II, Cerf, Paris 1967, pp. 388-389). C’è di fatto in Gesù una critica al sacro dell’economia cultuale di Israele che si inserisce nella logica della tradizione profetica e che giunge a non riconoscere alcuna sacralità al tempio e ai suoi sacerdoti: tutta la sacralità si concentra sulla persona adorabile di Gesù il Kýrios.
Sì, in Gesù il «sacro» di tempi, luoghi, persone, azioni ha lasciato il posto alla santificazione di tutta l’esistenza. Gesù non ha rigettato il culto, né ha voluto una comunità a-rituale, una comunità che non conosce la liturgia e i suoi luoghi e i suoi tempi: l’uomo infatti non può vivere e umanizzarsi senza azioni simboliche, senza riti; non è possibile una fede in Dio, una relazione con lui senza segni esteriori, senza liturgia. Ma Gesù ha voluto che i riti, le liturgie fossero ispirazione e conferma della forma dell’esistenza del credente.
Battesimo, eucaristia, imposizione delle mani, preghiera appartengono all’agire di Gesù e sono costitutivi della chiesa, dunque assolutamente essenziali alla vita cristiana. Ma questi riti non bastano a se stessi, perché per essere salvifici devono originare un’esistenza cristiana «altra», santa, conforme a quella di Gesù e alla volontà di Dio. E infatti il giudizio di salvezza e di perdizione cadrà sull’esistenza umana, sull’ethos del servizio al prossimo, sul vivere o non vivere il comandamento nuovo di Gesù, il comandamento ultimo e definitivo (cf. Gv 13,34; 15,12).
Perché anche la liturgia terrestre finirà e lascerà posto solo all’agape, ma «donec veniat» (1Cor 11,26) resta essenziale un’azione nella fede, restano essenziali dei segni, delle parole, delle esperienze che, ordinate all’agape, siano capaci di generare il frutto dell’agape. Queste azioni, questi tempi e spazi a esse connessi sono «liturgici» e non sono «sacri» nel senso della fenomenologia sacrale delle diverse religioni: devono essere conformi alle esigenze della liturgia che è adorazione, timore, memoriale di Dio e della sua salvezza.
Ma dopo la precisazione sul sacro cercheremo anche di focalizzare meglio il rapporto tra arte e liturgia; o meglio, ci interrogheremo sull’arte liturgica, non dimenticando mai che nello spazio cristiano è innanzitutto l’azione liturgica che deve essere un’opera d’arte. La prima bellezza epifanica deve essere trovata nell’azione liturgica, nella celebrazione, nella quale sono convocate le opere d’arte che non costituiscono lo scenario per la liturgia ma partecipano alla liturgia e – oserei dire – anch’esse concelebrano.
Per fare un esempio, affinché una liturgia cistercense sia un’opera d’arte occorre certamente una chiesa cistercense, cioè un’architettura come quella delle Trois soeurs de Provence (le abbazie di Sénanque, Thoronet e Silvacane) o quella contemporanea di Novi Gur in Tchek, un’architettura cistercense appunto. Così come per fare spazio alle cosiddette «devozioni» e non alla liturgia, occorre una chiesa dotata di vari altari laterali dove si possa venerare l’immagine o la statua di qualche santo, o addirittura degli angoli riparati in cui entrare e nella penombra pregare in modo solitario, «etsi assemblea non daretur», «come se l’assemblea non ci fosse». Entrambi sono chiese, entrambi possono essere opere d’arte, ma una è arte liturgica, l’altra è arte a servizio delle devozioni!
Dunque la liturgia ha bisogno dell’arte, sia in quanto liturgia dell’incarnazione sia perché non si può concepire una liturgia senza arte. La liturgia confessa la trasfigurazione della realtà e l’arte è capace di evocare in modo particolare questa trasformazione, di alludere a questo processo di metamorfosi che ha come soggetto lo Spirito santo. È dunque vero che la liturgia abbisogna del linguaggio dell’arte, espresso nell’architettura, nella scultura, nella pittura, nelle vetrate, nella musica. Nello stesso tempo, però, la liturgia cristiana deve discernere e giudicare quali opere d’arte possono entrare in essa e acquisire la capacità di essere concelebranti, di essere mistagogiche, in grado cioè di condurre al mistero di Cristo; oppure deve valutare se, al contrario, le opere d’arte costituiscono una contraddizione, un impedimento alla liturgia stessa.
Non si dimentichi – come già si accennava in precedenza – che c’è un’arte religiosa, a volte straordinaria, che però non è adeguata, non ha la capacità di entrare nella liturgia. Oggi regna molta confusione sull’argomento, e per questo ci si avventura troppo facilmente sulle vie della sperimentazione e dell’improvvisazione, ma tale modo di procedere contraddice lo statuto della liturgia cristiana. Occorre pertanto ricordare che una cosa è l’arte religiosa, anche cristiana, e un’altra è l’arte cristiana liturgica: quest’ultima è giudicata a partire dalla sua capacità mistagogica, cioè diventa arte liturgica quell’arte che è capace di fare segno, di evocare, di narrare il mistero che si celebra. Ci sono infatti opere religiose che non sono in grado di essere a servizio dell’opus Dei, così come ci sono opere in grado di essere a servizio della liturgia che però non hanno una collocazione dove la liturgia lo esige. Qui è davvero decisiva la capacità di discernimento!
Ma l’arte liturgica deve essere anche giudicata a partire dalla sua possibilità di essere letta, percepita, accolta da parte dell’assemblea che, insieme all’arte, celebra il mistero. Se le opere d’arte non sono lette, se non sono accolte come concelebranti, se addirittura disturbano l’assemblea celebrante, allora occorre avere il coraggio e la forza di espellerle dallo spazio celebrativo. Quanta violenza è invece purtroppo fatta al popolo di Dio attraverso opere d’arte che non entrano nella comunione che deve essere non solo creduta, ma anche sentita dal credente… Secondo il mio modesto pensiero, questi sono i due criteri da tenere presenti per giudicare un’opera d’arte come liturgica, come atta a concelebrare.
Possiamo inoltre chiederci: qual è il fine a cui deve tendere l’arte quando vuole entrare nella liturgia? Con la sua bellezza, bellezza della materia e dell’arte umana, è chiamata a narrare la bellezza della presenza e dell’azione del Signore vivente, «per quem haec omnia, Domine, semper bona – e in questo bona è racchiuso anche il pulchra… – creas, sanctificas, vivificas, benedicis, et praestas nobis» («Attraverso di lui, tu, o Dio, sempre crei buone tutte le cose, le santifichi, le vivifichi, le benedici e le doni a noi»: Preghiera Eucaristica I). Simboli e arte testimoniano la convinzione che l’invisibile esiste, che la liturgia è una finestra aperta sull’invisibile, che il credente vuole esercitarsi a vedere l’invisibile (cf. Eb 11,27), per restare saldo in un mondo in cui il visibile sembra essere l’unica possibilità di lettura. In un mondo limitato al visibile, e di conseguenza all’empirico, simboli e arte chiedono di essere letti, di essere presenti per aiutare gli uomini a una comprensione più profonda e totale della loro vocazione.
Detto altrimenti, il problema è quale simbolica, quale linguaggio e immaginario simbolico può attivare il desiderio spirituale dell’uomo attuale e aprire la sua mente e il suo immaginario verso l’eschaton e l’eterno, cosa già difficile di per sé, e oggi ancora di più per l’uomo contemporaneo costantemente di corsa, «in fuga». Questa simbolica (e arte) nella liturgia deve avere come fine quello di suscitare la capacità di gratuità e di contemplazione, non di consumo o di possesso; deve saper introdurre al senso del mistero, che non è affatto l’inconoscibile, ma ciò per il quale l’interesse e la ricerca non si esauriscono mai, anche quando lo si conosce parzialmente: il mistero infatti, e in particolare il mistero di Dio, diviene sempre più interessante, se-ducente, capace di condurre a sé, nella misura in cui a esso ci si avvicina progressivamente e se ne conosce qualcosa.
Va inoltre riconosciuto con chiarezza: la bellezza dei simboli e dell’arte nella liturgia deve sempre essere rivelativa di Dio, della sua azione, del suo amore fedele per questa creazione e per l’umanità intera; nello stesso tempo, però, essa richiede da parte del credente un cammino di discernimento, un cammino ascetico mai concluso, un cammino faticoso di ricerca del senso inscritto in ogni bellezza, la quale sempre rimanda a Dio, lui che è «speciei generator», «autore della bellezza» (Sap 13,3). Nessuna negazione, nessuna diffidenza verso la materia, verso le creature di questo mondo, verso l’opera delle mani dell’uomo. Occorre invece un’ascesi rigorosa affinché proprio nell’esperienza delle realtà sensibili siamo in grado di discernere le realtà invisibili ed eterne (cf. 2Cor 4,18). Ha scritto Bernardo di Clairvaux: «Dio è invisibile ma ha voluto “mostrarsi” nella carne e “vivere come un uomo tra gli uomini” (cf. Bar 3,38), perché gli uomini, creature di carne, non potevano amare se non nella carne. Solo così poteva condurli verso l’amore che dà la salvezza, l’amore per la sua persona» (Discorsi sul Cantico dei cantici 20,6 [SC 431, p. 138]).
Sì, occorrono una lunga disciplina e una costante educazione di ogni cristiano, perché possa percepire la vera bellezza nell’arte la quale, se è autentica, insegna, fa memoria, emoziona, plasma il cristiano stesso che potrà dire: «amator factus sum pulchritudinis eius» (Sap 8,2). E noi dobbiamo credere, insieme alla tradizione cristiana orientale, che l’arte non solo può narrare l’agere Dei, ma può anche riflettersi sul cristiano che la legge e la abita, trasfigurandolo di gloria in gloria, a immagine di colui che è la fonte di ogni bellezza (cf. 2Cor 3,17-18). Egli sperimenterà così la verità delle parole del profeta Isaia: «Dominus erit pulchritudo tua» (Is 60,19).