La liturgia cristiana, sfida per l’arte contemporanea

Avvenire, 3 giugno 2010 - pg. 29LA LITURGIA CRISTIANA, SFIDA PER LA CONTEMPORANEITÀ

Avvenire
3 giugno 2010
di FRANÇOIS BOESPFLUG

François Boespflug, della facoltà di teologia dell’università «Marc Bloch» di Strasburgo, presenta domani all’VIII Convegno liturgico internazionale del Monastero di Bose una relazione su «La liturgia cristiana, sfida per l’arte contemporanea», della quale pubblichiamo in questa pagina un estratto. Il convegno, organizzato in collaborazione con l’Ufficio nazionale per i beni culturali ecclesiastici della Cei e dedicato a «Liturgia e arte, la sfida della contemporaneità», inizia questa mattina dopo l’introduzione di Enzo Bianchi e di Stefano Russo con un intervento dell’austriaco Johannes Rauchenberger su «Arte religiosa, arte sacra, arte liturgica» e prosegue nel pomeriggio con il francese François Cassingena-Trévédy su «La sacramentalità dell’arte nella liturgia» e lo svizzero Eric Fuchs («La visibilità della Parola»). Domani le relazioni saranno dedicate all’illustrazione di esempi di arte liturgica contemporanea in Inghilterra, Italia, Germania, Francia e Usa. Sabato, dopo una relazione dell’ortodosso Jean-Franois Colosimo, le conclusioni dell’arcivescovo Gianfranco Ravasi («L’arte, provocazione e ferita») e di Albert Gerhards.

Astratto in chiesa: ma chi lo capisce?

Il primo compito nell’ordine delle urgenze consiste secon­do noi nel ripartire risoluta­mente dal concilio Vaticano II prendendo finalmente sul serio non solo quanto concerne lo spazio liturgico, l’altare e il mo­bilio, ma più globalmente l’o­rientamento indicato in genera­le alle belle arti nella Costituzio­ne sulla liturgia. Vi si dichiara fra l’altro che «la Chiesa non ha mai fatto suo alcuno stile», ma che accoglie volentieri tutti gli stili nella misura in cui si prestano a servire la liturgia. Vi si parla an­che, forse per la prima volta nel­la lunga storia dei discorsi della Chiesa sull’arte, del «ministero» di quest’ultima e del suo ruolo potenzialmente teologale, ben al di là del livello puramente fun­zionale o decorativo in cui si sa­rebbe talvolta tentati di confi­narla, almeno in Occidente.

L’importanza di questa dichiara­zione non è certamente ancora stata percepita nel suo giusto valore; o se lo è stata, oggi non lo è più. Rari sono i rimandi a questo testo negli scritti relativi all’arte religiosa della nostra e­poca. Alcuni teologi fra gli spe­cialisti (poco numerosi) dell’arte sacra cristiana del XX secolo la­sciano tranquillamente intende­re che questo testo conciliare è ai loro occhi ampiamente supe­rato e non più degno di vero in­teresse, in quanto non sarebbe all’altezza delle sfide del mo­mento per non aver saputo va­lutare il cammino dell’arte nell’ultimo secolo. Mi permetto di essere di parere contrario. La dichiarazione conciliare costi­tuisce un principio dalle molte­plici applicazioni e rimane sen­za equivalenti nella lunga storia dei discorsi magisteriali sull’ar­te. (...) D’altro lato è chiaro che se i rapporti fra le comunità cri­stiane e l’arte devono ridiventa­re toniche ed esigenti, non ci si potrà limitare alla prospettiva generosa ma pur sempre al­quanto vaga espressa dal Conci­lio, che è essenzialmente una prospettiva di accoglienza per quanto, si precisa, condizionale.

C’è indubbiamente qualcosa di più e di meglio da fare. «Acco­glienza » è diventata la parola magica per una concezione mi­nimalista dei rapporti fra la Chiesa e le arti, a dispet­to delle sue arie di aper­tura e di generosità. La «condizionalità» è una clausola che rischia di applicarsi solo a poste­riori: e allora sarebbe troppo tardi. È piuttosto a monte, nei momenti chiave della concezione e della commissione del­l’opera destinata a luogo di celebrazione liturgica, che importa che gli arti­sti e i rappresentanti del­la Chiesa si incontrino e con­frontino i loro punti di vista.

Ciò implica non solo che la Chiesa impari nuovamen­te a commissionare e a formulare le sue attese invece di limitarsi a dire «io assumo», «io accolgo», «io compero«, ma an­che che si accerti che gli artisti suscettibili di lavorare per essa siano capaci di farlo in cono­scenza di causa e siano stati suf­ficientemente formati alla biso­gna. Ma quali sono gli artisti che accettano di entrare in tale pro­spettiva, e quale istituzione è in grado di proporre loro una for­mazione? La Chiesa cattolica deve imparare nuovamente a spender tempo e denaro per for­mare dei chierici nel solco degli stretti e complessi legami che per secoli sono esistiti fra essa (la sua liturgia, la sua catechesi, la sua missione) e le arti. A quando l’inserzione nelle fa­coltà di teologia di una vera for­mazione all’iconografia cristia­na, e più generalmente alla let­tura dell’immagine, che non sia una semplice spolveratura o­meopatica?

(...) Un altro compi­to sarebbe prendere in conside­razione e pensare teologicamen­te il venir meno delle figure del Dio cristiano nell’arte moderna e contemporanea. Si tratterebbe di pensare lo svanire del volto nell’arte del XX secolo; di torna­re una volta di più sulla questio­ne di sapere quali possono esse­re ora i rapporti del cristianesi­mo con la figura. Hans Urs von Balthasar era del parere che «so­lo quel che comporta una figura può trasportare e tuffare nel ra­pimento (…) Senza figura l’uo­mo non può essere afferrato né trasportato. Ed essere trasporta­to è l’origine del cristianesimo».

Ci si può tuttavia chiedere se il problema è ben posto. Si può pensare che la vera posta in gio­co nel mantenimento o nella di­menticanza della figura in gene­rale e del volto in particolare sia altrove piuttosto che nel «rapi­mento », versione un po’ barocca di una delle tre funzioni tradi­zionalmente assegnate all’arte religiosa («commuovere, far ri­cordare, istruire»). Un ulteriore obiettivo sarebbe denunciare il fossato che si va scavando fra l’arte d’avanguardia e la gente (non solo i cristiani). Essa deci­samente non capisce più. Anche con la miglior buona volontà, anche quando si sente in dovere di aggiornarsi per avere qualche occasione di capire, non riesce proprio a seguire. Subentra una pesante stanchezza, molto smo­bilitante: si finisce per abituarsi a non capire, ben presto si ces­serà di sentirsi colpevoli o stupi­di per questo. C onverrebbe dunque chie­dersi perché quanti hanno la responsabilità di deci­dere, nei musei, nei ministeri o nella Chiesa, con il pretesto frut­to di sollecitazione ma fraudo­lento che è quello che vuole la gente, o con il pretesto che biso­gna aprirsi alla modernità, privi­legiano tanto e in modo così u­nilaterale «il rapporto con la cul­tura » (sottinteso: d’avanguardia) senza tenere in alcun conto la sensibilità reale e le attese della gente e senza rendersi conto che rischiano di accreditare «un bluff gigantesco». Trascurando certe forme culturali che non possono più mostrarsi, ne favo­riscono arbitrariamente altre, in particolare «l’arte di Chiesa-Sta­to » (la separazione ha qui cedu­to il posto alla collusione), for­me che non hanno alcuna possi­bilità di ricezione nel popolo di Dio. È forse un effetto della pau­ra profonda, tanto più imperio­sa in quanto incosciente, di «perdere l’autobus», di non riu­scire a imbarcarsi nell’ultimo treno culturale in partenza?

Checché ne sia, quest’obiettivo implica rendere la parola e una certa visibilità a tutti quegli arti­sti che lavorano nell’ombra e che pur controcorrente conti­nuano senza provare vergogna e senza nascondersi (ma anche senza ostentarlo) a ispirarsi alla Bibbia, alla liturgia e alla teolo­gia. Sono più numerosi di quan­to si pensi. Ma chi si cura di an­dare incontro a questi soldati semplici dell’arte? Chi sono?

Dove sono recensiti? Dove si fa memoria di quanto essi hanno creato dal 1950? Quali sono i luoghi che osano dedicar loro le proprie strutture? Essi non ten­gono a esser chiamati «pittori religiosi». Non importa: è certa­mente grazie a loro, lo si sco­prirà un giorno, che prosegue, al di là delle rotture annunciate e proclamate, la vasta storia delle forme di cui la Bibbia rimane «il grande codice».

«La teologia deve considerare il venir meno della figura e del volto nel XX secolo, denunciando il fossato fra le avanguardie e la gente (non solo i cristiani). Eppure ci sono artisti che in silenzio s’ispirano ancora alla Bibbia»

di FRANÇOIS BOESPFLUG