La saggezza della comunità - Osservatore Romano 1 giugno
Monastero di Bose
Ufficio Nazionale per i beni culturali ecclesiastici e l’edilizia di culto – Cei
Consiglio Nazionale Architetti, Pianificatori, Paesaggisti e Conservatori
XV CONVEGNO LITURGICO INTERNAZIONALE
ABITARE
CELEBRARE
TRASFORMARE
processi partecipativi tra liturgia e architettura
BOSE, 1-3 giugno 2017
Osservatore Romano 1 giugno 2017
di DARIO VITALI
La Lumen gentium afferma la precedenza del popolo di Dio sulla gerarchia, della vita teologale sulle funzioni ministeriali e gli stati di vita, in ragione della precedenza dell’essere sul fare. La rivoluzione copernicana del concilio trova il suo fondamento nel rapporto costitutivo tra sacerdozio comune e sacerdozio ministeriale, che «differiscono per essenza e non tanto per grado», e che per questo «partecipano ambedue, ciascuno a suo proprio modo, all'unico sacerdozio di Cristo» (Lumen gentium, 10). Si tratta dell’unica differenza essenziale nella Chiesa, che abilita qualcuno — in forza della configurazione sacramentale a Cristo-capo — ad agere in persona Christi in favore della comunità sacerdotale. Tutte le altre differenze sono espressione della grazia battesimale.
Non si tratta perciò di negare la gerarchia per innalzare i laici, di cancellare le funzioni per affermare un potere concorrente del popolo di Dio; si tratta piuttosto di tornare ai giusti processi ecclesiali, in grado di garantire la crescita della Chiesa come «comunità di fede, speranza e carità» (Lumen gentium 8), e perciò di ogni suo membro nella vita teologale, attraverso la circolarità continua tra sacerdozio comune e sacerdozio ministeriale, tra la comunità sacerdotale e i suoi pastori.
Lumen gentium aveva descritto il sensus fidei come partecipazione del popolo di Dio alla funzione profetica di Cristo: «La totalità dei fedeli che hanno ricevuto l’unzione del Santo (cfr. Giovanni 2, 20.27) non può sbagliarsi nel credere, e manifesta questa sua peculiare proprietà mediante il senso soprannaturale della fede di tutto il popolo, quando “dai vescovi fino agli ultimi fedeli laici”, esprime il suo universale consenso in materia di fede e di morale. Con il senso della fede suscitato e sorretto dallo Spirito di verità, il popolo di Dio, sotto la guida del sacro magistero al quale fedelmente si conforma, accoglie non già una parola di uomini, ma realmente la Parola di Dio; aderisce indefettibilmente “alla fede trasmessa una volta per tutte ai santi”, vi penetra più a fondo con retto giudizio e più pienamente la applica alla vita» (Lumen gentium 12).
L’ecclesiologia conciliare conferisce al sensus fidei il suo giusto posto e rilievo: la rivoluzione copernicana in ecclesiologia permette di recuperare effettivamente la funzione attiva del popolo di Dio non solo nel campo ristretto dello sviluppo dogmatico, ma in tutti i processi della vita ecclesiale, compreso l’ambito dell’architettura e dell’arte sacra. Se si tratta, infatti, di una forma peculiare di esercizio del sacerdozio comune — la partecipazione alla funzione profetica di Cristo da parte della totalità dei battezzati — il suo esercizio avviene nella circolarità continua con il munus docendi dei Pastori della Chiesa. La difficile recezione di una dottrina.
Basterebbero queste affermazioni per tentare un collegamento del sensus fidei con il processo — immaginato dal presente convegno — di «fare, abitare, costruire, celebrare, trasformare», in una relazione armonica di «committenza, architetti, artisti e comunità cristiana, in dialogo con il tessuto sociale e ambientale circostante». Sarebbe, però, una scorciatoia, o un cortocircuito, dal momento che la teologia post-conciliare, una volta affermata enfaticamente la novità del sensus fidei, ha di fatto trascurato questa dottrina, come pure la dottrina del sacerdozio comune; anzi, l’uso polemico che è stato fatto di questi temi, mettendo in competizione il sacerdozio comune con il sacerdozio ministeriale, e opponendo l’autorità dottrinale dei fedeli al Magistero della Chiesa, ha spinto quest’ultimo a inquadrare la teologia del popolo di Dio e, in particolare, il sensus fidei nel fenomeno del dissenso. Se così fosse, come immaginare un contributo al «fare Chiesa» di un soggetto — il popolo di Dio — che rivendica in termini polemici una funzione alternativa alla gerarchia?
In realtà, a essere polemica non è stata la universitas fidelium — alla quale difficilmente viene concessa la parola — ma quanti si erano eletti a suoi interpreti qualificati: soprattutto teologi che hanno assunto il sensus fidei come istanza democratica nella Chiesa, opponendo carisma a istituzione, libertà a verità, popolo di Dio a gerarchia, in uno schema ideologico che ha molto compromesso e frenato il processo di rinnovamento ecclesiale avviato dal Vaticano II. A causa di tale deriva il sensus fidei non ha conosciuto la dovuta attenzione nel processo di recezione del concilio, con la conseguenza di disattendere le enormi possibilità di applicazione che il quadro ecclesiologico disegnato da Lumen gentium offriva al suo esercizio. Di fatto, nel Magistero post-conciliare si è preferito glissare sul tema, passando a una più comoda teologia del laicato, costruita sul rapporto di collaborazione con la gerarchia piuttosto che sul primato del popolo di Dio.
Il sensus fidei — contestuale con il tema del popolo di Dio — è tornato al centro dell’attenzione con Papa Francesco.
Sulla base di questa dottrina, il Papa fonda e giustifica la sua idea che, «in virtù del battesimo ricevuto, ogni membro del popolo di Dio è diventato discepolo missionario», per cui «ciascun battezzato, qualunque sia la sua funzione nella Chiesa e il suo grado di istruzione della sua fede, è un soggetto attivo di evangelizzazione e sarebbe inadeguato pensare ad uno schema di evangelizzazione portato avanti da attori qualificati, in cui il popolo fedele fosse solamente recettivo delle loro azioni» (Evangelii gaudium 120). Criterio, questo, che sembra calzare in termini esemplari al campo dell’edilizia di culto e dell’arte sacra, appannaggio dei committenti, degli architetti e degli artisti, senza alcuna partecipazione attiva del popolo di Dio al processo. Al di là di una richiesta di aiuto economico per la costruzione della chiesa, null’altro si chiede alla comunità cristiana.
D’altronde, cosa potrebbe mai dire o fare il popolo di Dio in un’azione che richiede competenze precise, sia in fase di progettazione che di esecuzione? Come potrebbe incidere su un progetto architettonico, o su un’opera o un ciclo di arte sacra, se manca di strumenti che ne rendano se non necessaria, quantomeno utile la richiesta di un parere? Erano, su altro registro, le stesse domande che si poneva Melchor Cano nel XVI secolo, quando, pur riconoscendo la universitas fidelium come voce della Tradizione, e perciò una delle autorità che il teologo poteva interrogare per comprovare la verità cattolica, lo privava di qualsiasi valore chiedendosi che cosa mai i fedeli potessero dire che già i pastores ac doctores non avessero già detto, molto meglio e con più profondità e pertinenza. Stando a questo criterio, che cosa possono chiedere alla gente il vescovo, il liturgista, il teologo, l’architetto, l’artista che loro già non sappiano? Ma in tal modo si finirebbe nella stessa logica degli «attori qualificati», che priverebbero il popolo di Dio di qualsiasi capacità attiva nel processo di costruzione di una chiesa.
Sfuggendo a questa logica, Papa Francesco, nel discorso in occasione del cinquantesimo anniversario dell’istituzione del sinodo dei vescovi, ha spiegato che è stato il riferimento al sensus fidei a «guidarmi quando ho auspicato che il popolo di Dio venisse consultato nella preparazione del duplice appuntamento sinodale sulla famiglia. Certamente, una consultazione del genere in nessun modo potrebbe bastare per ascoltare il sensus fidei. Ma come sarebbe stato possibile parlare della famiglia senza interpellare le famiglie, ascoltando le loro gioie e le loro speranze, i loro dolori e le loro angosce? Attraverso le risposte ai due questionari inviati alle Chiese particolari, abbiamo avuto la possibilità di ascoltare almeno alcune di esse intorno alle questioni che le toccano da vicino e su cui hanno tanto da dire».
Quel discorso — che non è fuori luogo qualificare come storico — ha ripreso e sviluppato l’ecclesiologia conciliare in chiave sinodale, offrendo un quadro assai utile per sussumere il quadro delle relazioni tra «committenza, architetti, artisti e comunità cristiana».
Il punto primo e decisivo è che, analogicamente al processo avviato dal Papa per i due sinodi, bisognerebbe ascoltare ciò che la comunità cristiana ha da dire sulla propria casa, quella che già abita o quella che andrà ad abitare. La scelta decisiva non è quella di inviare un questionario, che il più delle volte sembra destinato ai “cestini” di varia natura, ma di consultare, cioè dare voce e ascoltare la comunità cristiana in quello che ha da dire. Si tratta di andare oltre l’idea del «popolo bue», ignorante per definizione, e conferirgli dignità di soggetto, anche se il suo contributo si riducesse a balbettii: prima di liquidare l’irrilevanza di una parola incerta e debole, bisognerebbe stigmatizzare la responsabilità di quanti avrebbero potuto o dovuto, ma non hanno istruito il popolo di Dio nella grammatica della fede.
Si tratta di fare propria la logica sinodale, che elegge l’ascolto non solo come condizione, ma come primo atto dell’intero processo sinodale. Per Francesco, «una Chiesa sinodale è una Chiesa dell’ascolto, nella consapevolezza che ascoltare “è più che sentire”. È un ascolto reciproco in cui ciascuno ha qualcosa da imparare. Popolo fedele, collegio episcopale, vescovo di Roma: l’uno in ascolto degli altri; e tutti in ascolto dello Spirito Santo, lo “Spirito della verità” (Giovanni 14, 17), per conoscere ciò che Egli “dice alle Chiese” (Apocalisse 2, 7)». Nel caso del sensus fidei, è un ascolto fondato sulla convinzione che «voi avete l’unzione ricevuta dal Santo e tutti sapete. (...) la sua unzione vi insegna ogni cosa, è veritiera e non mentisce» (1 Giovanni 2, 20.27).
Se anche nell’atto di avviare la costruzione di una chiesa il processo inizia dall’ascolto, chi si dovrebbe ascoltare? Che cosa si dovrebbe domandare? In che termini? Va da sé che un’indagine di tipo discrezionale, scegliendo a campione tra i membri della comunità, scadrebbe nelle dinamiche dell’opinione pubblica, contraddicendo grossolanamente il sensus fidei e la sua funzione ecclesiale, data piuttosto dall’azione dello Spirito santo che muove la Chiesa verso il consenso. Né basta dire che bisogna consultare o far parlare tutti, perché il consenso come effetto dell’esercizio del sensus fidei non è la somma delle opinioni di tutti, ma la manifestazione della fede della Chiesa in quanto tale. Questo è evidente nel campo dello sviluppo dogmatico, ma rimane vero in ogni ambito del vissuto ecclesiale: soggetto del sensus fidei non è tanto il singolo, quanto la Chiesa come totalità dei battezzati.
Questo particolare profilo ecclesiale del sensus fidei lascia intendere anche i termini in cui si debba intendere l’ascolto del Popolo di Dio da parte di chi, committente, architetto, artista, ha la responsabilità di costruire la «casa» della comunità: «ascoltare è più che sentire», ma è anche più che far parlare, in quanto nella parola — come pure nel silenzio — dell’altro chi interroga è chiamato a cogliere la voce dello Spirito che guida la Chiesa a tutta intera la verità. Non si tratta perciò di fare sondaggi e di verificare le percentuali della maggioranza, ma di porsi in ascolto di una voce — non l’unica, certo — della Tradizione, sapendo che questa «cresce nella Chiesa sotto l’assistenza dello Spirito santo» (Dei Verbum 8).
Ma come ascoltare questa peculiare voce della Tradizione, se il soggetto del sensus fidei è la totalità dei battezzati? Come interrogare un soggetto tanto grande da risultare anonimo? Non a caso, la teologia preconciliare parlava di un’infallibilità passiva, attribuendo al Magistero la funzione attiva di verificare il consenso dei fedeli. D’altra parte, così si erano regolati i Papi nel caso dei dogmi mariani, quando avevano consultato i vescovi per sapere della fede loro e dei loro fedeli circa l’Immacolata Concezione e l’Assunzione di Maria in cielo. Ma questa idea si è imposta — come si è visto — con la Riforma gregoriana: nel primo millennio non si parlava di «singularis Antistitum et fidelium conspiratio», intendendo due autorità nella Chiesa — il Magistero e la universitas fidelium — che attestano la stessa verità, ma di «singularis christianorum populorum concordissima fidei conspiratio», dove «i popoli cristiani altro non sono che le diverse Chiese diffuse su tutta la terra, in comunione tra loro proprio per la condivisone della medesima fede apostolica».
Le due formule rispondono a modelli ecclesiologici diversi: la Chiesa come communio Ecclesiarum del i millennio e la Chiesa universale del ii millennio. Il Vaticano II, senza negare le acquisizioni dell’ecclesiologia giuridica del ii millennio, centrata soprattutto nella difesa delle prerogative del Papa, anzi inserendole in un quadro più ampio e organico, ha recuperato l’orizzonte dei Padri, spiegando la compagine ecclesiale come «il corpo delle Chiese», «nelle quali e a partire dalle quali esiste l’una e unica Chiesa cattolica» (Lumen gentium 23). La forza di questo principio, che nel post-concilio si è tentato di stemperare, risiede nella capacità di tradurre in termini di circolarità feconda la cattolicità della Chiesa. In effetti, il concilio, proprio nel quadro del capitolo sul popolo di Dio, aveva già affermato la «mutua interiorità» di universale e particolare, asserendo la legittima esistenza delle Chiese particolari, le quali «godono di tradizioni proprie, salvo restando il primato della cattedra di Pietro che presiede alla comunione universale della carità, garantisce le legittime diversità e insieme vigila perché il particolare non solo non nuoccia all’unità, ma piuttosto la serva» (Lumen gentium 13).
Qualcuno potrebbe chiedersi perché tanta insistenza sul registro ecclesiologico. Il motivo è semplice e decisivo insieme: dato che «il deposito della Parola di Dio» è stato «affidato alla Chiesa» (Dei Verbum 10), un diverso modello di Chiesa reclama un diverso modello di trasmissione del deposito rivelato. Quando, cioè, si concepisca la Chiesa nella «mutua interiorità» di Chiesa universale e Chiese particolari, anche il dinamismo della Tradizione va ripensato secondo il profilo di tale soggetto, che non è più la Chiesa universale genericamente intesa, ma il «corpo delle Chiese» in comunione tra loro, con il successore di Pietro come principio e fondamento dell’unità di tutti i battezzati, di tutte le Chiese, di tutti i vescovi.
Il concilio, disegnando in senso dinamico il progresso — meglio sarebbe dire: il cammino — della Tradizione, ha recuperato anzitutto la funzione del popolo di Dio. Quando Dei Verbum afferma, infatti, che «la perceptio, tanto delle cose quanto delle parole trasmesse, cresce sia per la contemplazione e lo studio dei credenti, i quali le meditano in cuor loro (cfr. Luca, 2, 19.51), sia per la profonda intelligenza delle cose spirituali di cui fanno esperienza, sia per la predicazione di coloro che hanno ricevuto un carisma sicuro di verità» (Dei Verbum 8), prima della predicazione dei vescovi sottolinea la capacità dei credenti di intus-legere il mistero cristiano. Il testo non richiama esplicitamente il sensus fidei, che, tuttavia, è evocato dalla contemplazione di chi, sull’esempio di Maria, medita nel proprio cuore, e soprattutto dall’intelligenza profonda (intima) delle cose spirituali che scaturisce dall’esperienza cristiana.
Due le conseguenze più immediate: che non si può comprendere la Tradizione limitandosi all’ascolto dei pastori, in quanto dotati del «carisma sicuro di verità», senza considerare il popolo santo di Dio, voce della Tradizione e quindi soggetto di diritto della sua trasmissione; inoltre, che bisogna ascoltare il popolo di Dio addirittura prima dei pastori. Questo non per ribaltare la piramide, nel tentativo di esautorare o comunque indebolire la funzione del Magistero: la logica del testo risponde piuttosto all’idea di Rivelazione come incontro e dialogo di Dio con l’uomo. Se, infatti, «Dio parla agli uomini come ad amici e si intrattiene con loro per invitarli ed ammetterli alla comunione con sé» (Dei Verbum 2), la risposta a Dio nel dialogo è di questi uomini che «per mezzo di Cristo, Verbo fatto carne, nello Spirito santo, hanno accesso al Padre e sono resi partecipi della natura divina» (Dei Verbum 2), cioè del popolo di Dio, costituito tale in forza della rigenerazione in Cristo, che non risponde anzitutto con illustrazioni dottrinali, ma con la confessione della fede, con la parola e soprattutto con la testimonianza della vita.