L’arte di accogliere le famiglie nel lutto - Osservatore Romano 1 giugno

Monastero di Bose
Ufficio Nazionale per i beni culturali ecclesiastici e l’edilizia di culto – Cei
Consiglio Nazionale Architetti, Pianificatori, Paesaggisti e Conservatori

XV CONVEGNO LITURGICO INTERNAZIONALE
ABITARE
CELEBRARE
TRASFORMARE

processi partecipativi tra liturgia e architettura

BOSE, 1-3 giugno 2017


Osservatore Romano 1 giugno 2017
di Louis-Marie Chauvet

Prima di essere la casa di Dio (i templi pagani erano la casa del dio e contenevano la statua che lo rappresentava), una chiesa è la casa della Chiesa, cioè del popolo di Dio. Popolo di Dio: ecco una delle immagini che è riemersa nel concilio Vaticano II per designare la Chiesa, immagine che, a differenza di quella paolina di «corpo di Cristo» è largamente estensibile: di un corpo o si è membra o non lo si è, non c’è via di mezzo; parlare di un popolo permette di abbracciare una realtà più ampia.

Ora, questo popolo di Dio è per l’appunto molto diversificato: diverso non solo per cultura e lingua, ma per il suo posizionamento nella fede. Ciascuno, di conseguenza, deve poter trovare il proprio posto nell’edificio-chiesa, sentirsi accolto e anche, in certo modo, avere la sensazione di essere atteso per il semplice fatto che il Dio del vangelo attende e accoglie ciascuno così com’è, quale che sia il punto in cui si trova, come ama sottolineare così frequentemente Papa Francesco. Nel “corpo di umanità” di Cristo, che sia attuale (i cristiani) o semplicemente virtuale (l’insieme dell’umanità), ciascuno deve poter trovare il suo posto. Questo deve evidentemente ripercuotersi sulla qualità della celebrazione dei funerali. Ora, questa qualità dipende innanzitutto dalla qualità dell’accoglienza e dell’accompagnamento delle persone che richiedono tale cerimonia.

Vorrei parlarvi a partire dalla mia pratica pastorale in una parrocchia di ventiduemila abitanti nella periferia parigina in cui si celebrano circa settantacinque funerali l’anno. Nella nostra équipedi accompagnamento delle famiglie in lutto siamo quattro, tre laici e io, che sono presbitero. Poiché la messa propriamente detta è celebrata raramente in questa occasione per il fatto che la stragrande maggioranza dei defunti non erano o non erano più praticanti, e spesso da molto tempo, e che il rapporto della loro famiglia con la fede cristiana è diventato spesso molto debole, il più delle volte potrei anche non mettermi in gioco in quanto prete, e questo tanto più per il fatto che le tre persone che assicurano questo compito lo fanno con tutta la cura che ci si potrebbe augurare da un punto di vista pastorale e spirituale.

Eppure, almeno tre volte su quattro sono presente accanto a una di loro. C’è un motivo pastorale: fa parte essenziale dello sforzo che abbiamo intrapreso da qualche anno per «andare nelle periferie», come domanda Papa Francesco. Le cosiddette periferie, in questo caso, non abbiamo bisogno di andarle a cercare, vengono da noi in quest’occasione e, oserei dire, vengono da molto lontano rispetto alla fede cristiana.

La maggioranza di queste persone non hanno altro elemento di identità cristiana che qualche vago ricordo del catechismo imparato durante l’infanzia; i loro figli, oggi adulti, molto spesso non sono battezzati o, comunque, non hanno ricevuto una catechesi. A mio avviso, sarebbe un peccato (come fa purtroppo la maggior parte dei preti oggi in Francia) non approfittare di questa opportunità col pretesto che, poiché dei laici possono svolgere questo incarico, i preti non devono più occuparsene. Personalmente, e questo costituisce, al di là della motivazione personale, la ragione propriamente teologica del mio atteggiamento, io rifiuto questo aspetto concorrenziale. È un pensiero tipicamente clericale, centrato sul potere: «Se lo possono fare loro, allora non c’è bisogno che entri in gioco anch’io».

Questo non corrisponde affatto a ciò che padre Yves Congar chiamava non molti anni orsono la «corresponsabilità differenziata» tra ministeri ordinati (preti e diaconi) e ministeri dei laici! Una corresponsabilità suppone che non si sostituisca un termine all’altro ma che, al contrario, si cooperi ciascuno in nome della sua missione (questo si chiama partenariato). Del resto, se si restringe il campo di esercizio del ministero presbiterale nell’ambito di ciò che è sacramento nel senso stretto del termine, non si finisce per sostenere una già inquietante “sovra-sacerdotalizzazione”? La “consolazione” (paráklisis, 2 Corinzi 1, 4-5) non costituisce una delle dimensioni del ministero presbiterale?

Affinché la celebrazione nell’edificio-chiesa sia vissuta come evangelicamente buona da parte di partecipanti che, come ho già ricordato, si trovano alla periferia in rapporto alla Chiesa, occorre innanzitutto offrire loro una buona accoglienza. E offrire loro una buona accoglienza non significa soltanto accettarli umanamente così come sono, ma posare su di loro un riflesso dello sguardo di Cristo, e dunque accogliere la particella di Regno che può giungerci attraverso di loro, perché anch’essi sono amati da Dio, anche per loro Cristo ha dato la sua vita, anche in loro opera lo Spirito. Ricordiamo su questo tema le stupende affermazioni del Vaticano II: il mistero pasquale «vale non solamente per i cristiani, ma anche per tutti gli uomini di buona volontà, nel cui cuore opera invisibilmente la grazia. Cristo infatti è morto per tutti e la vocazione ultima dell’uomo è effettivamente una sola, quella divina, perciò dobbiamo ritenere che lo Spirito santo dia a tutti la possibilità di venire a contatto, nel modo che Dio conosce, col mistero pasquale» (Gaudium et spes 22).

Evidentemente questo richiede una conversione dello sguardo sulle persone. Ma tale conversione permette aperture sperimentate centinaia di volte. La postura di chi è accolto si lascia chiaramente modellare in qualche modo da quella di chi accoglie. L’apertura risponde all’apertura. A una “contrazione” di chi accoglie corrisponde una “contrazione” di chi è accolto. E quando si adotta una postura che, pur rimanendo gentile, è fondamentalmente contratta, quando dunque questo genere di incontri risultano poco felici, non si può fare un buon lavoro pastorale. Come potrebbero le persone accogliere qualcosa della buona novella quando la relazione è così tesa? Del resto, dov’è la qualità evangelica di questo comportamento? Non riflette piuttosto il desiderio di potere di chi accoglie invece del riflesso dello sguardo benevolo del Dio del vangelo: il padre del figlio prodigo, il pastore alla ricerca della pecora perduta, il padrone che ricompensa gli ultimi arrivati tanto quanto gli operai della prima ora?

Beninteso, se anzitutto occorre saper accogliere, bisogna anche offrire la possibilità di progredire. La benevolenza umana e cristiana dell’accoglienza non significa che ci si dovrebbe sottomettere al desiderio delle persone accolte, le quali, animate da rappresentazioni di Dio spesso poco cristiane, e incapaci o diventati incapaci di padroneggiare la grammatica elementare dei riti liturgici, hanno bisogno di essere guidate. Tutto sta nel guidarle in maniera evangelica. Così come c’è un’arte di celebrare, c’è un’arte di accompagnare, che è altrettanto complessa, se non ancora di più, rispetto alla prima.

La cosa più importante in tale questione sta nella qualità della relazione: il contenuto teologico di quello che sono indotto a dire nel corso della relazione in quanto prete è meno importante del modo in cui lo dico. Il teologo che io sono, tuttavia, non è affatto indotto a minimizzare la qualità di questo contenuto ma lo subordina alla qualità dell’incontro. In altre parole, è la teologia della sua pastorale che è qui in gioco.

In genere passo la prima ora dell’incontro insieme con un laico dell’équipead ascoltare, innanzitutto, il racconto della vita del defunto fatto dai suoi parenti. Inutile dire che questo momento è importantissimo perché è in questo ascolto che si costruisce la relazione che permetterà di dire qualche cosa della Buona Notizia. Sia ben chiaro, sto parlando della buona notizia del vangelo e non di idee teologiche o regole morali. La mia missione, in questa circostanza, non è quella di correggere storture teologiche o di impartire lezioni di morale, ma è quella di essere un testimone che permette alle persone di attingere alla fonte dell’«acqua viva». O, per utilizzare un’altra immagine giovannea, la mia missione è quella di permettere alle persone di gustare qualche cosa del vino nuovo e inebriante di Cana, non un vino che, con il pretesto di adattarsi alle persone, è tagliato con acqua a tal punto da diventare una bevanda insapore; come potrebbe una bevanda simile generare in quelle persone il desiderio del vangelo?

Certamente l’adattamento alle persone accolte è una necessità pastorale e occorre che questo adattamento sia fatto con intelligenza. Non si tratta assolutamente di neutralizzare in un modo o nell’altro la straordinaria novità del Dio del vangelo, cioè un Dio che ha perduto la sua “autoritaria” superbia perché è Amore (cfr. 1 Giovanni 4), amore per ciascuno fino a perdere la vita (croce); amore per ciascuno perché è in se stesso amore (relazioni trinitarie). In compenso, occorre vigilare sulla quantità di questa novità inaudita che le persone possono assorbire; una quantità eccessiva farebbe girar loro la testa o li farebbe ammalare! Sono personalmente convinto della pertinenza delle parole di Papa Francesco a questo proposito: «Quando si va all’essenziale, tutto si semplifica». E a questo essenziale è piuttosto facile andare quando ci si fonda semplicemente su alcuni riti fondamentali dei funerali: il canto d’addio, i riti così semplici e belli della luce, l’incenso, l’acqua battesimale... Insomma, io faccio una breve “mistagogia” prima della celebrazione.

In seguito lascio la famiglia con un membro dell’équipeper una seconda ora, e a volte di più, per preparare nel dettaglio la celebrazione: scelta delle letture, intenzioni della preghiera universale e così via. È l’occasione per ulteriori confidenze. Molti testimoniano che il fatto di non trovarsi più con un prete, in quanto rappresentante ufficiale della Chiesa e anche, certamente, di trovarsi con un laico, soprattutto forse quando si tratta di una donna, costituisce un plusvalore nella relazione e questo favorisce grandemente il clima della celebrazione liturgica qualche giorno più tardi.

La pastorale è innanzitutto una questione di relazioni. Riprendendo le ben note categorie di John Langshaw Austin sull’atto del parlare si può dire che essa non è tanto d’ordine “locutorio” (il contenuto di ciò che viene detto) ma piuttosto d’ordine “perlocutorio” (l’effetto morale o spirituale che produce sulle persone) e soprattutto d’ordine “illocutorio”: «Chi sono io per voi, signora, signore» e «chi siete voi per me». Ciò che è più determinante è questo rapporto tra le posizioni di chi accoglie e di chi è accolto; un rapporto di stima e di rispetto per le persone che si manifesta nella qualità dell’ascolto, un ascolto cordiale del racconto della vita che vi viene raccontata, spesso a frammenti. Storia spesso complessa; non siamo tutti «invischiati in storie», come dice il bellissimo titolo dell’opera di Wilhem Schapp? Quando, grazie a questo tipo di relazioni, le persone si sentono veramente accolte, possono accogliere a loro volta qualche cosa del vangelo come Parola di un amore che salva. Si potrebbero rileggere ovviamente alcuni famosi incontri di Gesù come quello della samaritana (cfr. Giovanni 4); è la qualità di questo incontro che nella donna trasforma un “bisogno” di qualcosa in “domanda” di qualcuno: il bisogno immediato di acqua (la donna «lasciò la sua anfora») trasformato in domanda dell’“acqua viva” che è Gesù stesso in quanto “Salvatore”. E alla fine è dentro di lei che zampilla la fonte di quest’acqua viva. L’accoglienza pastorale delle persone che chiedono un rito di passaggio come i funerali deve poter permettere, anche se il tempo è poco, di far loro gustare qualcosa di questa trasformazione che fa vivere!

Ho parlato dei funerali in chiesa. Avrei potuto evocare altri riti di passaggio, quali il battesimo dei bambini o il matrimonio. In ciascuna di tali circostanze è possibile, ne sono convinto tanto a motivo della frequente pratica pastorale quanto sulla base della teoria teologica, aprire una domanda di rito su un itinerario di senso: senso cristiano, certamente, e credo che la mia insistenza precedente su questo tema l’abbia dimostrato, ma anche senso umano. Non si può celebrare nella liturgia l’umanità del Dio divino rivelato in Gesù senza crescere noi stessi in umanità. Vi è motivo di pensare, guardando all’uscita dalla chiesa i volti delle persone che vi hanno celebrato un rito di passaggio o ascoltando le poche parole che accompagnano il loro sorriso, che esse escano da questo luogo più umane di come sono entrate, e anche più cristiane! Non per questo ricominceranno a partecipare all’eucaristia domenicale o alla vita della comunità parrocchiale, ma anche se il pastore se lo augura, non è questo che ha di mira.

Il pastore punta su quel passo verso il Dio del vangelo che l’evento religioso ha permesso loro di fare. Per il resto, si ricorda di non essere altro che un servo che non ha fatto se non quello che doveva fare (cfr. Luca 17, 10), atteggiamento evangelico di spossesso di sé che lo libera e gli permette di vivere nel rendimento di grazie.