Intervento dell'Arcivescovo Antonio Mennini
XVIII Convegno Ecumenico Internazionale di spiritualità ortodossa
COMUNIONE E SOLITUDINE NELLA TRADIZIONE ORTODOSSA
Bose, 8-11 settembre 2010
in collaborazione con le Chiese Ortodosse
INTERVENTO DELL'ARCIVESCOVO ANTONIO MENNINI
Bose, 10 settembre 2010
ECCELLENZE REVERENDISSIME CARI AMICI,
ORGANIZZATORI, RELATORI E OSPITI
DI QUESTO CONVEGNO,
È con gioia e riconoscenza che rivolgo il mio saluto a voi tutti, nel corso di queste giornate di intenso lavoro, che quest'anno - ormai il XVIII - vede il vostro tradizionale appuntamento ecumenico internazionale di spiritualità ortodossa, dedicato al tema «Comunione e solitudine».
Un tema certamente caro alla tradizione della Chiesa d'Oriente, che sente profondamente l'antinomia di ogni realtà come riflesso dell'inesauribile pienezza del Vero sotteso ad ogni realtà umana. Vorrei dunque provare a offrire alcuni spunti per la comprensione di questo «inesauribile» tema. Un tema eminentemente monastico, ma che è paradigmatico per la vita cristiana, in un'epoca in cui è evidente la priorità di una missione di testimonianza, del compito di riedificare la Chiesa non come strutture, ma come persona.
Tale urgenza era stata sottolineata, tra l'altro, dal Santo Padre Benedetto XVI durante la visita nella Repubblica Ceca, osservando che «la fede e la speranza, nell'epoca moderna, hanno subito come uno "spostamento", perché sono state relegate sul piano privato e ultraterreno, mentre nella vita concreta e pubblica si è affermata la fiducia nel progresso scientifico ed economico (cfr. Spe salvi, 17)...L'uomo ha bisogno di essere liberato dalle oppressioni materiali, ma deve essere salvato, e più profondamente, dai mali che affliggono lo spirito. E chi può salvarlo se non Dio, che è Amore e ha rivelato il suo volto di Padre onnipotente e misericordioso in Gesù Cristo?».
Ora questo «spostamento» cui accenna il papa Benedetto XVII, dalla fede in Cristo alla fiducia nelle sole capacità dell'uomo, in un progresso scientifico ed economico, è un cambiamento del metodo originario del cristianesimo, presumendo di rimpiazzarlo con le proprie capacità. Al dato originale, che consiste nel fatto che l'uomo non si fa da sé, si è sostituita la pretesa che l'uomo possa farcela da sé.
Questo implica un tradimento della natura dell'uomo, che è fatto per Dio, e genera una deformazione in tutti gli aspetti della vita cristiana.
Non di rado si può vedere un cristianesimo senza Cristo; Cristo viene relativizzato come uno dei tanti geni religiosi dell'umanità. Ma c'è anche un cristianesimo senza Chiesa. In questo caso, non essendo immanente l'oggettività di Cristo, si scade in un soggettivismo che tende a esasperare gli aspetti profetici ed escatologici. Se poi si assolutizza una giusta lotta contro la mentalità mondana, il cristianesimo rischia di apparire come "rifugio", preservato dalle fatiche e dal dramma della vita quotidiana. Si rischia così un infantilismo o uno spiritualismo.
D'altro canto, se il cristianesimo asseconda la cultura mondana, che ha distrutto il valore dell'appartenenza, e non affonda più le sue radici nella bellezza della Tradizione, si generano nella comunità persone che hanno il respiro corto, sole, vuote e infelici, definite da una incompiutezza e quindi bisognose di appoggi sostitutivi.
Ora, in queste circostanze, come riprendere il metodo originario? Come essere contemporanei all'avvenimento di Cristo? È impossibile con le nostre sole forze: noi non possiamo creare l'avvenimento cristiano, esso è un puro dono, è una grazia, possiamo solo riconoscerlo lì dove è. Per questo occorre un cuore povero di spirito, mendicante, attento ai segni dei tempi, attento ai carismi che lo Spirito Santo suscita nel tempo della Chiesa.
La «comunità - comunione» è fondamentale nella concezione del soggetto, nella concezione della persona. Perché la comunità non è nient'altro che l'espressione oggettivata di quella comunionalità che è parte della persona, che è una dimensione della persona. La comunità, cioè, è prima "dentro" la persona, non fuori dalla persona. La comunità è un fattore che definisce che cosa sono io, che io appartengo! "Io appartengo" vuol dire che il rapporto con l'Altro è definitivo della mia persona.
La "comunità", dunque, non è intesa come la "propria compagnia", ma come "parte di sé", come parte originante della propria persona, e perciò parte di quella devozione che dobbiamo a Cristo. Il rapporto tra me e Cristo è costitutivo della mia persona; allora la comunionalità attraverso cui si realizza il rapporto di Cristo con me è una dimensione della mia persona. È per questo che san Paolo diceva: «Tutti voi che siete stati battezzati in Cristo vi siete immedesimati con Cristo. Non c'è più né giudeo né greco, né schiavo né libero, né uomo né donna, ma tutti voi siete uno, una persona sola, in Cristo Gesù» (cfr. Gal 3,27-28). E anche: «Anche noi, pur essendo molti, siamo un solo corpo in Cristo e ciascuno per la sua parte siamo membra gli uni degli altri» (Rm 12,5).
Allora la comunionalità è fondamentale nel modo di percepire e di conoscere, è una conoscenza nuova dell'io. Perché l'io si ricompone, si riunifica, trova la sua verità davanti al Tu di Cristo presente che si dona infinitamente a noi, e che pur permanendo nella forma della comunità ecclesiale la supera continuamente e infinitamente.
In altre parola, l'antinomia «comunione - solitudine» è quello che i Padri orientali chiamavano «via regale». Un'espressione strana, che potrebbe sembrare addirittura inappropriata se non fosse che richiama le porte regali dell'iconostasi, attraverso le quali ci vengono incontro il Vangelo, l'Eucaristia e cioè quel Cristo che è via e meta del nostro cercare, e se non fosse soprattutto che «via regale» è un'espressione entrata nella tradizione cristiana per definire - come dice Leclercq - la ricerca dell'uomo a superare la dissipazione di chi non sa cosa cercare per indurlo a unirsi a Dio solo.