Conclusioni del Convegno
XVIII Convegno Ecumenico Internazionale di spiritualità ortodossa
COMUNIONE E SOLITUDINE NELLA TRADIZIONE ORTODOSSA
Bose, 8-11 settembre 2010
in collaborazione con le Chiese Ortodosse
Conclusioni lette da ADALBERTO MAINARDI
a nome del comitato scientifico del Convegno
Bose, 11 settembre 2010
Per consentire un’operazione di sintesi del cammino percorso insieme ? un’operazione che rimane affidata alla libertà di ciascuno ?, proponiamo alcuni elementi per valutare le idee di fondo e quelli che mi sembrano i risultati salienti emersi dal lavoro di questi giorni, ma anche eventuali lacune e inadeguatezze e possibili vie nuove da esplorare. Queste conclusioni, anche in nome del comitato scientifico, non vogliono avanzare pretese di completezza, ma semplicemente offrire un servizio a una migliore comprensione reciproca.
Tre anni fa, alla conclusione del convegno dedicato al Cristo trasfigurato nella tradizione ortodossa, padre Michel van Parys sottolineava l’importanza, per questi incontri ecumenici di spiritualità ortodossa, del con-venire, del venire assieme in un luogo di ascolto reciproco e di amicizia, uno spazio di simpatia necessario per superare i pregiudizi e intraprendere un cammino serio di conoscenza dell’altro.
Il fine di questo convenire ha una dimensione ecumenica precisa, quella di consentire una dilatata accoglienza della ricerca spirituale del fratello, per incontrare gli uni insieme agli altri il Cristo che viene; ma riveste anche una dimensione di dialogo con l’umanità contemporanea, le sue ricerche e le sue attese. “Il tuo volto, Signore, io cerco” (Sal 26,8). Questo versetto del salmo 26 indica bene il cammino che si è voluto intraprendere in ascolto della tradizione spirituale delle chiese d’oriente nella multiforme unità delle sue diverse tradizioni (bizantina, slava, romena, armena, siriaca…)
Discernere il volto di Cristo è in realtà un’arte che si apprende in un rapporto personale di paternità spirituale come iniziazione alla comunione (lo abbiamo a lungo meditato nel convegno di due anni fa); un’arte che richiede una dura lotta per attingere la verità di se stessi, e aprire il cuore all’accoglienza dell’altro. Questa lotta spirituale in vista dell’agape è stata al centro del convegno dello scorso anno.
In questi giorni abbiamo concentrato il nostro sforzo proprio su questa dinamica che dall’isolamento degli individui conduce alla comunione delle persone, ma che necessariamente passa per un’autentica vita interiore nella libertà. Lo hanno a più riprese ricordato i messaggi dei capi delle chiese qui rappresentate, insistendo sull’insegnamento offerto dall’esperienza monastica, dove solitudine e silenzio introducono “alla relazione e all’essere in comunione con gli altri” (Bartolomeo I di Costantinopoli), e mostrando come le dimensioni di solitudine e comunione trovino un modello di armonica compenetrazione nella vita stessa di Gesù come ci è consegnata dalla narrazione evangelica (il patriarca di Mosca Kirill I e papa Benedetto XVI).
Forse abbiamo già qui tracciate le linee di fondo che hanno guidato la nostra riflessione. Da un lato solitudine e comunione sono dimensioni irrinunciabili dell’essere stesso dell’uomo nel mondo, dall’altro vengono illuminate dalla vicenda di Cristo. Nel mistero della chiesa, una e molteplice, si rende manifesto il fondamento cristologico di solitudine e comunione, e insieme la dimensione pneumatologia di questa polarità fondamentale della vita spirituale. « L’opera di Cristo unifica, l’opera dello Spirito santo diversifica » (Vladimir Lossky).
Questa compenetrazione tra solitudine e comunione è una costante nella Scrittura e nella storia della chiesa. La dimensione del “deserto” (éremos), quale luogo di prova e di incontro con il Dio vivente, tempo e luogo dell’obbedienza e della disobbedienza alla Parola, è fondante per l’esperienza spirituale di Israele, l’evento che lo costituisce quale “assemblea santa”. Prima della parola di comunione, viene la parola di separazione: acquisire la somiglianza di Dio ― la vocazione biblica dell’uomo ― significa diventare a somiglianza di un Dio che abita la distanza, il nascondimento; è un Dio che chiama alla comunione, non alla fusione. Gesù stesso approfondisce il senso della sua vocazione nell’eremos, il deserto: la conoscenza di Dio nella solitudine ci apre alla comunione nella verità.
Nel Nuovo Testamento, il termine comunione (koinonía) indica essenzialmente la partecipazione alla vita divina dischiusa da Gesù Cristo, che si manifesta in particolare nella sua dimensione eucaristica, “nella comunione al sangue e al corpo di Cristo” (cf. 1Cor 10,16). È nella comunità eucaristica che anche l’esperienza monastica trova il suo radicamento ecclesiale, che la preserva da quelle derive autoreferenziali sempre possibili che contraddicono la comunione.
Grazie alla riflessione teologica e spirituale di san Basilio nel IV secolo (non a caso l’epoca delle grandi controversi cristologiche), anche l’esperienza monastica viene ricondotta a quel fondamentale equilibrio umano e cristiano tra libertà interiore del singolo e comunione nella compagnia degli uomini, compiutamente realizzato nel Cristo, che per amore del Padre e degli uomini versa il suo sangue nell’abbandono estremo della croce. “Nella solitudine assoluta della croce Gesù ha fatto nascere la comunione”. (Olav Tveit)
Sin da subito il nostro convegno ha così rinunciato a leggere le coordinate di “comunione e solitudine” secondo uno schema predefinito da semplificazioni storiografiche quali “eremitismo” e “cenobitismo”, che riducono una dinamica esistenziale e spirituale in continua interrelazione (l’arcivescovo Ieronimos ha parlato di allilopericóresi “circumsessione” nel suo messaggio) all’incongruente contrapposizione di tipi astratti (i cenobiti, gli eremiti). La concretezza del vissuto umano chiede invece che anche l’esperienza comunitaria sia costruita come un tutto strutturato secondo natura, dove il germe logikós seminato nell’uomo (è ancora un’idea di Basilio) conduce al completamento dell’opera creativa di Dio nella bellezza e nella bontà della vita in comunione. Nell’etologia basiliana, l’uomo è naturalmente un essere koinonikós, a differenza del leone, per sua natura animale selvaggio e solitario, monastikós …
Solo un’autentica antropologia cristiana può in tal modo aprire uno spazio di comprensione del fenomeno monastico e delle oscillazioni stesse della spiritualità cristiana tra vita solitaria e vita in comune, con sfumature e modalità diverse in Oriente e in Occidente. Lo studio diacronico di questa polarità (comunione/solitudine) in contesti dissimili, ha fatto emergere abbastanza chiaramente l’arbitrarietà di schemi classificatori astratti (eremo/cenobio) applicati rigidamente a una realtà spirituale viva e fluida.
Poco fa il metropolita Kallistos ci ricordava come nel monachesimo orientale non esiste una netta linea di demarcazione tra vita in comunità e vita eremitica, ma proprio questo confine fluido e poroso è segno di “arricchimento e benedizione”. L’indissolubile circolarità tra le due dimensioni ― lo abbiamo sentito nei primi giorni del nostro convegno ― è in effetti al cuore stesso del monachesimo bizantino e russo; il legame tra ricerca personale di Dio e apertura a una comunione cosmica è addirittura centrale in un padre fondamentale per la spiritualità dell’oriente come dell’occidente cristiani: sant’Isacco il Siro.
La continua interrelazione tra vita solitaria e dimensione comunitaria, tra deserto e cenobio, vale infine per l’occidente, dove si alternano cicli di rinnovamento della vita spirituale caratterizzati dall’accento sulla vita eremitica e di riforma della vita cenobitica. Un’eccezionale testimonianza di questa interazione è stata l’esperienza storica di Optina Pustyn’, che significativamente pone al centro della dinamica tra cenobio e anacoresi la vita di preghiera, personale e comunitaria. Si apre qui naturalmente un tema molto profondo e ampio, che potrebbe costituire da solo l’argomento di un convegno.
La riflessione sugli sviluppi storici introduce alla realtà contemporanea. La ricerca, in tutta la tradizione monastica, di un delicato equilibrio spirituale tra la faticosa scoperta della propria verità e il riconoscimento dell’altro come costitutivo del sé, l’uscita da se stessi e la comunione come pienezza di umanità, indica che l’interazione tra comunione e solitudine costituisce una polarità profonda della vita umana e cristiana.
Proprio qui incontriamo il punto di interrogazione che la modernità pone all’esperienza cristiana. Se la grande parabola del moderno può essere descritta come un passaggio dall’eteronomia all’autonomia ― l’uscita da un mondo chiuso gerarchizzato verso un universo aperto basato sul principio di eguaglianza, in cui ognuno è teoricamente artefice del proprio futuro ―, l’esito paradossale è una radicale solitudine dell’individuo, di cui l’anonimato della massa non è che la faccia nascosta.
La sfida comunitaria nell’orizzonte postmoderno è forse quella di realizzare comunità capaci di dare speranza. Non l’utopia della relazione all’altro totalmente trasparente a se stessa, ma la concreta vita comune come vocazione di umanizzazione: nelle relazioni personali, sociali, politiche, economiche, ecologiche …
Il sospetto moderno verso ogni coercizione dell’io rischia paradossalmente di annullare la gratuità dell’incontro con l’altro nel mito collettivo dell’ideologia o di disperderla nell’indifferenza dell’individualismo. Un’autentica dialettica tra comunione e solitudine chiede invece di essere realizzata in una dimensione di fiducia e gratitudine verso l’altro: in un sempre rinnovato rendimento di grazie, in una pratica eucaristica.
La koinonía non definisce solo il piano orizzontale dei rapporti interumani, ma apre uno squarcio sulla vita delle Persone divine: “L’essere significa vita e la vita significa comunione” (Zizioulas). Senza persona non c’è comunione; ma senza comunione non c’è persona.
Un pensiero teologico che si lasci guidare dallo Spirito è allora chiamato a un’ascesi creativa per superare la contrapposizione sterile e astratta fra tradizionalismo e modernismo, l’uno e l’altro prigionieri dell’autosufficienza di una storia ripiegata su stessa: su un passato idealizzato o un presente che non attende trasfigurazione.
Come discernere nella tradizione dei padri (ma fin dove giunge?) quello che è una ricezione (obbedienza) autentica della Parola di Dio e quello che non lo è più? Il problema ― che era quello di san Basilio di Cesarea ― è stato posto con molta nettezza da diverse angolazioni. Un monachesimo, una chiesa che non attendono più il Signore della storia, hanno perduto il loro sapore. È sempre in agguato allora la tentazione di far coincidere la comunione ecclesiale con l’isolamento autosufficiente, la chiusura settaria che cerca di differenziarsi isolandosi, invece di aprirsi integrando e interpretando la diversità, divenendo stimolo vivo – il “lievito” della parabola evangelica – che annuncia la trasfigurazione delle relazioni umane e dello stesso cosmo.
L’autentica dimensione “ecclesiale” della dinamica tra solitudine e comunione apre invece nell’oggi di Dio l’irruzione della novità escatologica: la comunione definitiva di Dio “tutto in tutti”, che inscrive la comunione al centro del rapporto personale tra l’uomo e Dio. E ciò è tanto più attuale nell’orizzonte postmoderno dell’atomizzazione del soggetto. La nozione cristiana di “persona”, ― sono stati evocati i nomi di Berdjaev e Bulgakov, ma anche di Zizioulas e Yannaras ―, costituisce il punto di incontro e il superamento della contrapposizione potenzialmente distruttiva tra le spinte antagoniste del soggetto e l’aspirazione all’uno della collettività.
Che cos’è dunque la persona? Uno stupore che è riconoscenza, una meraviglia che si affida. È una libertà che si dona. La libertà profonda ― a volte sconcertante ― che nasce dall’amore e solo dall’amore; la libertà acquistata a caro prezzo da autentici abitatori del deserto contemporaneo, quali padre Cleopa di Sihastria, “uomo per gli altri”, o padre Porfyrios di Kafsokalyvia, che nel fuoco del suo amore bruciava ogni consuetudine irrigidita e ferma. Nella loro lotta solitaria contro il male ― morale, fisico, spirituale ― la profondità dell’amore di Cristo abbraccia la solitudine e la disperazione di ogni uomo. È l’energia della speranza che splende anche nell’inferno dell’isolamento e della lontananza da Dio ― come hanno mostrato santi quali Serafim di Sarov o lo starec Silvano del Monte Athos.
Una lacuna nel percorso tentato quest’anno è forse stata l’assenza di una riflessione nata dall’apporto delle scienze umane su questa tensione molto complessa tra isolamento dell’io e apertura all’intersoggettività; e, parallelamente, di una riflessione puntuale sulle strutture di maturazione ― umana e spirituale ― che consentono di imparare ad abitare la solitudine e a praticare la comunione.
Abbiamo tuttavia potuto ascoltare le voci di monaci e monache d’oriente e d’occidente raccontare il concreto esercizio quotidiano di vivere in comunione e vivere in solitudine: esercizio della ricerca di Dio nel silenzio della cella, discernimento del volto di Dio nell’incontro con il fratello.
La solitudine è un’arte che va appresa, esige quell’apprendistato che l’isolamento evita. Essa è sempre una solitudo pluralis; per questo i padri chiedevano che solo dopo una lunga iniziazione alla vita comune si intraprendesse l’arduo cammino della vita solitaria, in cui ― abbiamo sentito l’espressione di san Serafim di Sarov ― il monaco lotta contro leoni e tigri.
Il silenzio e la contemplazione fanno spazio alla vita della Parola nella comunione dei fratelli, nell’ascolto dell’altro. Si scopre allora che la solitudine è un’arte agapica, amica e maestra sulla via dell’amore. Un amore da vivere concretamente, quotidianamente ― come orizzonte cui tendere, all’interno della fraternità monastica, ma anche e soprattutto all’interno della chiesa e tra la chiese, e per l’insieme della comunità umana. La solitudine è la profondità della vita comune, la comunione è il frutto della purificazione interiore, ma il fine è sempre l’agape.
ADALBERTO MAINARDI
monaco di Bose
a nome del comitato scientifico del Convegno