Conclusioni del Convegno
XXII Convegno Ecumenico Internazionale di spiritualità ortodossa
BEATI I PACIFICI
Bose, 3-6 settembre 2014
in collaborazione con le Chiese Ortodosse
CONCLUSIONI DEL CONVEGNO
Pronunciate da Michel Van Parys a nome del Comitato Scientifico
Quando la comunità monastica di Bose, un anno fa, al vedere le atrocità commesse durante la guerra civile in Siria, ha scelto come tema del XXII Convegno ecumenico internazionale di spiritualità ortodossa il versetto di Mt 5,9: “Beati i pacifici, perché saranno chiamati figli di Dio”, non poteva certo ancora prevedere la drammatica urgenza delle settimane scorse e dei giorni scorsi nel Vicino e Medio Oriente e in Ucraina.
Proviamo un disagio estremo, cent’anni dopo il genocidio armeno seguito da tanti altri nel corso del XX secolo, a parlare di pace, a constatare l’impotenza che ci afferra di fronte alle sofferenze di tanti bambini, genitori, nonni
Come parlare? Ma come possiamo non parlare, non riflettere e non pregare? È ciò che abbiamo fatto insieme mettendoci sotto lo sguardo di Cristo Gesù, nostra pace.
Proverò, come conclusione, a rilevare qualche linea di forza dei nostri scambi, e di suggerire qualche punto che meriterebbe ulteriori approfondimenti.
Diverse relazioni hanno abbozzato una riflessione teologica e antropologica sulla violenza subita e inflitta nella Sacra Scrittura, e più precisamente nei Salmi e nel Vangelo secondo Giovanni (cf. E. Bianchi, La violenza e Dio, Milano 2013)
Non ignoriamo che il cristianesimo, a partire dall’illuminismo, così come il giudaismo e l’islam, sono accusati d’intolleranza. Non possiamo eludere tale questione. Si è citata l’interpretazione allegorica praticata dai padri della Chiesa; essa, se non altro, mostra che la chiesa primitiva era pienamente consapevole del problema, e ha sviluppato un’esegesi che trasponeva la violenza fisica al livello del combattimento spirituale del cristiano contro il principe di questo mondo, il diavolo, padre della menzogna e omicida (cf. Gv 8,44).
Ma forse oggi potremmo proporre al popolo di Dio anche un’altra tradizione patristica complementare, quella tipologica, che, ad esempio, inserisce i salmi nella storia della salvezza, leggendoli alla luce di un tipologia messianica. Non potremmo cercare insieme, noi chiese ancora divise, un’interpretazione “cristica” dei salmi, della violenza che attraversa la Bibbia, dal martirio di Abele ad opera di suo fratello Caino alla guerra totale, escatologica, di cui ci parla il libro dell’Apocalisse (cf. Ap 12; 19,11-21; 20)
Giovanni il Teologo attesta che Gesù, il Cristo, ha vinto il male e la morte con l’agape, l’amore, (eis télos egápesen hautoús), “li amò fino alla fine”, o “fino all’estremo” (Gv 13,1).
Ad esempio: il salmo 4, al versetto 5, si può tradurre dall’ebraico: “Lottate per non peccare, ma custodite il silenzio”. La LXX traduce: “Adiratevi, ma non peccate” (Irascimini et nolite peccare, nella versione latina). L’ira è un impulso necessario per l’aggressività, ma il Signore Gesù ci dà, a più riprese, l’esempio di un’indignazione, di un’ira, che non ha altro fine se non quello di neutralizzare l’ipocrisia o l’indurimento del cuore, personale o comunitario.
Lo possiamo dire en passant: le antiche traduzioni greche e latine della Bibbia hanno già dato avvio a una rilettura del testo ebraico, un’interpretazione infinita che è compito di ogni generazione cristiana, interpretazione che sappia trarre profitto da tutto ciò che le scienze umane possono apportare alla comprensione della Parola di Dio.
I racconti biblici e i salmi riflettono la pedagogia dello Spirito santo, parlano della pazienza di Dio che ci conduce per mano da là dove noi siamo per farci entrare passo a passo nella salvezza che egli ci offre gratuitamente nel e attraverso il Verbo incarnato. Ci parlano anche, se non ancora di più, del nostro indurimento (cf. Sal 94 [95],9), della nostra resistenza a questa offerta della salvezza personale e comunitaria. Le parole “violente” ci ridicono incessantemente il cammino che dobbiamo percorrere: dal rifiuto del fratello al perdono del nemico. Dare un nome alle nostre passioni, ai nostri sentimenti di odio, ai nostri desideri è già una terapia. Dare un nome significa esorcizzarli, discernerli, guarirli. È bene dare un nome agli abissi del cuore umano peccatore. La Bibbia ci aiuta a prenderne coscienza.
I padri della chiesa hanno esplorato la ricchezza della pace, dono di Dio, in Cristo e attraverso il Cristo risorto. Cristo Gesù ci lascia la pace, ci dona la pace, la da non come la da il mondo (cf. Gv 14,27).
La pace ha la sua fonte in Dio, Padre, Figlio e Spirito santo. Per noi essa ha il volto del Figlio incarnato, servo sofferente, mite e umile di cuore, che ritornerà come giudice dei vivi e dei morti. La pace che ci è donata con Dio, riconciliazione tra gli angeli e gli uomini, deve regnare nella chiesa di Dio, tra le chiese e nel cuore dei credenti.
I padri si sono concentrati soprattutto sulla pace interiore, quella del cuore. Quale è la sinergia del battezzato con la grazia? Come si realizza il lungo lavoro della conversione, della metánoia? Con grande realismo hanno riconosciuto che le virtù dell’anima, sempre con l’aiuto dello Spirito santo, indirizzano lungo la via dell’amore, preparano la deificazione. Hanno fatto ricorso, con discernimento, agli strumenti che le tradizioni filosofiche non-bibliche mettevano a loro disposizione per insegnare il cammino dell’amore, che irradia la pace, e per fornire “le armi” contro tutto ciò che ostacola la crescita dell’agape: l’orgoglio, l’invidia, la gelosia, l’angoscia, la collera, l’avarizia, i cattivi desideri… (cf. Mt 15,19; Mc 7,20-23).
La pace, dono del Cristo e frutto dello Spirito santo (cf. Gal 5,22), deve manifestarsi nell’unità e attraverso l’unità della chiesa e delle chiese. Abbiamo ascoltato quanto hanno scritto Clemente di Roma e Ireneo di Lione. Consideriamo come rivolto a noi oggi il problema posto dalla concisa affermazione del vescovo di Lione a papa Vittore di Roma: “Il disaccordo (diaphonía) sul digiuno conferma l’accordo (homónoia) della fede” (Eusebio di Cesarea, Storia ecclesiastica V,24,12-13).
Al pari della santa Scrittura, la dottrina dei padri della chiesa deve essere accolta da ogni nuova generazione di credenti. Potremmo forse ampliare l’affermazione di Ireneo di Lione riproponendola in questi termini: “Il disaccordo sulle osservanze e la diversità delle formulazioni teologiche confermano la nostra unanimità nella fede?”. Sappiamo che nel sinodo del 362, ad Alessandria, Atanasio stesso ne ha dato conferma: la diversità delle formulazioni teologiche è legittima se la confessione di fede è unanimemente concorde.
Diverse volte si è citato, quasi incidentalmente, Basilio il Grande. I dissensi nella chiesa di Cristo sono stati per lui oggetto di grande sofferenza. Più di altri padri ha lavorato per la pace e l’unità della chiesa, vi ha riflettuto instancabilmente. Ritrovare la pace e l’unità della chiesa per la quale il Signore Cristo ha versato il suo sangue sulla croce, non lo si può fare che a una sola e unica condizione: l’obbedienza integrale delle chiese e dei credenti alla parola di Dio. Quando Basilio parla del raffreddamento dell’amore (cf. Mt 24,12), parla della disobbedienza alla parola di Dio. Ascoltiamo un passo tratto da una lettera alla chiesa di Tarso:
C’è bisogno di dire a dei figli della pace che cos’è il bene della pace? Poiché, dunque, questa cosa grande, mirabile e degna di essere ardentemente cercata da tutti quelli che amano il Signore, corre ormai il rischio di essere ridotta a un puro nome, poiché l’iniquità si è moltiplicata a motivo del raffreddamento dell’amore presso i più (cf. Mt 24,12), ritengo sia bene che quelli che servono il Signore in tutta sincerità e verità abbiano come unico scopo delle loro fatiche quello di ricondurre all’unità le chiese divise tra loro in tante frazioni e in tanti modi… Niente è proprio del cristiano quanto lavorare per la pace; perciò il Signore ci ha promesso per questo una grandissima ricompensa (cf. Mt 5,9) (Basilio il Grande, Lettere 114).
Qual è il legame tra l’unità della chiesa e la pace nel nostro mondo? Ci è parso che questo legame esista e che sia molto stretto. “Il vincolo della pace” (syndesmós tês eirénes) può e deve placare i conflitti e le guerre di cui l’umanità è vittima… Le chiese hanno un’enorme responsabilità nella promozione della pace in questo mondo.
La Divina liturgia racchiude un’immensa ricchezza a questo proposito. Essa ridice instancabilmente il dono della pace che le dona il Cristo risorto. Subito dopo la benedizione del regno di Dio, Padre, Figlio e Spirito santo, l’assemblea eucaristica è invitata a “pregare il Signore nella pace” (en eiréne toû Kyríou deethômen), a invocare la pace con il fratello, anche con quello che ha qualcosa contro di noi, pace tra le chiese di Dio, pace per il mondo intero. Vi è qui una possibilità di catechesi a partire dalla pace annunciata nella Divina liturgia che dovrebbe ispirare la predicazione dei pastori.
Non sarebbe anche il caso di togliere, o di non utilizzare più, gli anatemi presenti nei libri liturgici contro le altre chiese? Pensiamo agli anatemi contro papa Leone o contro Severo di Antiochia. Forse avevano una certa utilità pastorale in una determinata epoca, ma oggi non finiscono per rinchiuderci in un’identità ecclesiale esclusiva?
Le nostre chiese hanno tutte accettato, quando ne avevano la possibilità, la “coercizione”, il ricorso alla violenza, con o senza l’appoggio del “braccio secolare” per reprimere l’eresia, a motivo della sua diversa formulazione dogmatica. La politica ha abusivamente utilizzato la chiesa, le chiese, così come le chiese hanno abusato della loro influenza sulla società. Quale sinfonia tra trono e altare, nel rispetto di ciò che spetta a Dio e di ciò che spetta a Cesare?
Permettetemi di raccontare a questo proposito un’esperienza personale. Ormai molti anni fa, avevo studiato gli atti e la storia dei concili di Efeso (431) e di Calcedonia (451). Avevo appreso che il patriarca Flaviano di Costantinopoli era morto in seguito ai maltrattamenti inflittigli dai monaci copti nel sinodo di Efeso del 449 (il famoso latrocinio della storiografia calcedonese). Quando visitai per la prima volta il monastero di San Macario a Scete, fui invitato a venerare le reliquie del vescovo Macario, morto in seguito ai colpi e alle ferite inflitte dai monaci calcedonesi. Per me fu uno choc salutare! Non posso far altro che sperare che i due racconti siano frutto di leggende, ma questi due racconti la dicono lunga sulla costruzione e sul mantenimento nel corso del tempo nella memoria della chiesa dei torti subiti da parte dell’altra chiesa, dimenticando il torto inflitto dalla propria chiesa.
Il problema che ci viene posto, e che resta attuale, è quello della responsabilità delle nostre chiese e, in particolare, dei loro pastori e teologi, di de-costruire, attraverso una catechesi irenica, le immagini fittizie o reali dell’altra chiesa. Come de-costruire queste immagini falsate? Certamente attraverso l’ascolto del racconto delle sofferenze comunitarie e personali dell’altro; poi, attraverso l’umile e paziente lavoro dell’investigazione storica; infine, con la metánoia, la conversione, assumendo il passato della “coercizione” morale o fisica attuata dalla mia chiesa o dalla mia nazione. Riconoscere questo passato come proprio, purifica la nostra memoria e ci conduce a chiedere perdono. Non si tratterebbe di una delle forme dell’amore per i nemici che tanto aveva a cuore Silvano del Monte Athos?
Un primo passo in questa direzione sarebbe quello di rinunciare a riattivare la memoria delle ferite del passato. Non si tratta di negarle, perché le ferite cicatrizzate del corpo risorto di Gesù restano. Ci è sembrato che le chiese siano chiamate a discernere “gli spiriti che abitano nelle regioni celesti” (Ef 6,12), a non lasciarsi sedurre dalla propaganda ideologica e manipolatrice dell’opinione pubblica, a trascendere le passioni nazionalistiche o identitarie.
Le nostre chiese sono chiamate a diventare dei laboratori della pace di Dio (ergastéria tês eirénes toû Theoû), a cercare con impazienza di purificarsi per ricevere dal loro Signore il dono dell’unità. È questa la condizione assolutamente necessaria per la credibilità della loro testimonianza dell’amore di Dio e della pace che egli dona loro, “perché siano una cosa sola, come noi” (Gv 17,11).
Abbiamo parlato anche dei testimoni della pace.
I santi, canonizzati o meno, confortano la nostra speranza: anche noi possiamo diventare “artefici di pace” (Mt 5,9). Sono state evocate davanti ai nostri occhi sette figure di “pacificatori”: Francesco di Assisi, Nerses di Lambron, Silvano del Monte Athos, padre Stefan Zankov, padre André Scrima. A questi occorre aggiungere Nikolaj Nepluev, la cui fraternità ha fatto “abbracciare la giustizia [sociale] e la pace” (cf. Sal 84 [85],11), e, infine, il patriarca Athenagoras, al quale dobbiamo tutti un’immensa gratitudine. È stato artefice di pace con Paolo VI abolendo gli anatemi tra la chiesa di Roma e la chiesa di Costantinopoli. Il 7 dicembre del 2015 celebreremo il cinquantesimo di questo evento. Ho un sogno… Perché il prossimo anno non canonizzare nello stesso giorno Paolo VI a Roma e il patriarca Athenagoras al Phanar? Sarebbe un segno che la loro santa amicizia continua a portare il frutto dello Spirito, la pace, nelle nostre chiese. La speranza non delude!
Termino con una storia dei padri del deserto, che ci parla di umili artigiani di pace, che a loro rischio e pericolo continuano ad agire e a sperare. Questa storia ci fa pensare. La riporto come conclusione:
Vi era un anacoreta, un uomo di grande discernimento, che desiderava abitare alle Celle e non trovava una cella pronta. Un altro anziano, che aveva una cella vuota, venuto a conoscenza del desiderio dell’anacoreta, lo supplicò di venire a stabilirsi in quella cella, finché non ne avesse trovata un’altra. L’anacoreta allora vi andò e vi si stabilì. Alcuni anziani del luogo cominciarono a fargli visita, come a un ospite, e ciascuno gli portava quel che poteva. Egli li accoglieva e li ospitava. Ma l’anziano che gli aveva dato la cella, cominciò a provare invidia e a dir male di lui. Diceva: “Io sono rimasto qui per tanti anni, praticando una severa ascesi, e nessuno veniva da me; questo impostore invece è qui da pochi giorni ed ecco che tutti vengono da lui!”. E disse al suo discepolo: “Va’ a dirgli: ‘Va’ via di qui, perché ho bisogno della cella’”. Ma il discepolo andò dall’anziano e gli disse: “Il mio abba chiede come stai”. Quello rispose: “Digli che preghi per me, perché ho mal di stomaco”. Ritornato da chi l’aveva inviato, il fratello disse: “L’anziano ha detto: ‘Ho visto un’altra cella e me ne vado’”. Due giorni dopo, l’anziano disse di nuovo al discepolo: “Va’ e digli che, se non se ne parte, vengo io a scacciarlo con un bastone”. Il fratello ritornò dall’anacoreta e gli disse: “Il mio abba ha saputo che sei malato; ne è molto dispiaciuto e mi ha mandato a farti visita”. Quello gli rispose: “Digli che, grazie alle sue preghiere, sto bene”. Il discepolo ritornò dal suo anziano e gli disse: “Ha detto: ‘Aspetta fino a domani e, se Dio vuole, me ne andrò’”. Giunse la domenica e l’anacoreta non uscì dalla cella. L’anziano allora prese un bastone e partì con l’intenzione di percuoterlo e cacciarlo via. Mentre stava per partire, il discepolo gli disse: “Ti precedo nel caso che si trovino là dei fratelli e ne restino scandalizzati”. L’anziano glielo permise. Il fratello allora corse avanti e disse all’anacoreta: “Il mio abba viene a trovarti e ad accoglierti nella sua cella”. Quello, vedendo l’amore dell’anziano, uscì incontro a lui e gli fece una metanìa da lontano dicendo: “Vengo verso la tua santità, padre. Non ti affaticare”. Dio allora, vedendo l’opera del giovane, mosse a compunzione l’abba che, gettato via il bastone, corse ad abbracciare l’anacoreta. Lo abbracciò e lo condusse nella sua cella, come se quello non avesse udito nulla di quanto egli gli aveva mandato a dire; quindi disse al suo discepolo: “Non gli hai riferito niente di quello che ti avevo detto?”. Quello rispose: “No”. E l’anziano, a queste parole, fu pieno di gioia e capì che l’invidia proveniva dal Nemico e così lasciò in pace l’anziano. Poi cadde ai piedi del suo discepolo e gli disse: “Tu sei mio padre e io tuo discepolo, perché grazie a quello che hai fatto, le nostre due anime sono salve”. (Detti dei padri, N 451, in Detti editi e inediti, a cura di L. Cremaschi e S. Chialà, Qiqajon, Bose 2002, pp. 190-192).