Fatica ascetica e nuova umanità in Cristo
L'Osservatore Romano, 10 settembre 2009
Pubblichiamo alcuni stralci della relazione Teologia della fatica ascetica tenuta dal metropolita di Minsk, Filaret - esarca patriarcale di Bielorussia e presidente della commissione teologica del Patriarcato di Mosca - al XVII Convegno ecumenico internazionale di spiritualità ortodossa che si è aperto oggi, mercoledì, al monastero di Bose. Ai partecipanti al convegno sono giunti messaggi di saluto da Benedetto XVI, dal Patriarca ecumenico di Costantinopoli Bartolomeo, dal Patriarca di Mosca, Cirillo.
“Sia benedetto il Regno del Padre del Figlio e dello Spirito Santo”
Con questa parole comincia, in ogni chiesa ortodossa, la Divina liturgia. Ma ogni volta che ci si rivolge a Dio bisogna iniziare con questa glorificazione, poiché essa, secondo san Nicola Cabasila, “mette da parte noi stessi e tutto ciò che è nostro, e glorifica il Signore per Lui stesso, per la Sua forza e la Sua gloria”. Inizio la mia riflessione sulla teologia della fatica ascetica - il podvig -, con questo pensiero di un santo padre, e ciò per due ragioni. La prima ragione è che lo scopo del podvig ascetico è il distacco dalle passioni. E’ noto che raggiungere questo distacco è considerato la virtù più alta in molte culture, anche in quelle che non hanno relazione con la fede in Gesù Cristo.
Soltanto nel cristianesimo, però, le fonti del distacco dalle passioni si accentrano nella Divino-Umanità del Figlio di Dio – Figlio dell’Uomo. Lo scopo del podvig ascetico del cristiano non consiste nello sviluppo delle proprie capacità umane, ma ha tutt’altra finalità. Lo scopo infatti è la ricerca dei modi di contatto con Dio: con il proprio Creatore, il Salvatore, il Consolatore. Ecco perché la glorificazione del Signore per il Signore stesso, per la Sua potenza e gloria, è la risposta originale dell’individuo al richiamo evangelico: “Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua” (Mt 16,24).
La seconda ragione della nostra attenzione al pensiero di san Nicola Cabasila è che la materia della nostra riflessione, la lotta spirituale, impegna i cristiani a una specialissima attenzione ai rapporti vicendevoli e verso se stessi. Questa attenzione spirituale, direi anche evangelica, trova la sua incarnazione ideale nella Divina liturgia. Infatti in questo servizio divino il Signore altissimo stesso ci riunisce in una unità inscindibile. Proprio in ragione di questo riunirci, per questa unione eucaristica dei suoi fedeli Egli “ha dato il suo Figlio Unigenito, perché chiunque crede in Lui non muoia, ma abbia la vita eterna” (Gv 3,16). L’unità di tutti e di ciascuno non solo riproduce la sinfonia delle membra di un solo corpo, ma diventa un fatto pienamente reale, poiché la Santa Chiesa è il Corpo di Cristo, il corpo del Figlio di Dio dato agli uomini, “Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito” (Gv 3,16).
Questo è il punto di vista ortodosso sulle finalità del podvig ascetico e sui mezzi dati da Dio per conseguirlo. Orientandoci su questo ideale evangelico, ci sforziamo di avvicinarci, con sobrietà spirituale e mitezza, a una comprensione ecumenicamente cristiana del concetto di lotta spirituale.
(...) Partecipi del Corpo di Cristo nel sacramento del Battesimo e della Cresima, siamo chiamati ad assimilare e ravvivare i doni dello Spirito Santo che abbiamo ricevuto. In questo è racchiuso il podvig ascetico del pentimento, in greco metànoia, che significa “cambiamento di mente”. “Il nostro uomo vecchio” (Rm 6,6) nel pentimento trasforma il proprio pensiero, per acquisire il diritto di dire, con l’apostolo Paolo: “Ora noi abbiamo il pensiero di Cristo” (I Cor, 2,16).
Ne consegue che il senso della nostra azione ascetica non consiste nello sviluppare le capacità dell’“uomo vecchio”, ma nell’acquisire una nuova umanità in Cristo. Il cammino verso questa umanità si compie nella lotta alle passioni, che costituiscono proprio l’essenza menzognera dell’uomo vecchio. Il pentimento è considerato come una morte, in rapporto alla necessità di rinunciare al modo di vita dell’uomo vecchio, che in ultima analisi è chiuso in se stesso. Credo sia giusto definire questo modo di vita (dell’uomo vecchio) come individualista, tanto più se si tiene conto del significato della parola latina individuum, cioè indivisibile, a se stante. L’origine dell’individualismo sta nel desiderio dell’uomo di essere lui stesso un dio, non di essere insieme al Creatore; così egli è affetto dalla sete di sottomettere a se il mondo, ma senza trovarsi in un determinato grado di una gerarchia stabilita da Dio; è volto a mitigare la paura di perdere il potere personale di fronte alla necessità di condividerlo con le altre anime all’interno di quella gerarchia.
“L’uomo vecchio” si protegge da questa paura con il proprio orgoglio. Questa tentazione funge da catalizzatore per la moltitudine di tutte le altre passioni e crea nella coscienza dell’individuo l’illusione di essere pari a Dio. In tale stato l’uomo non è capace di compiacersi della verità (1 Cor 13,6), cioè non è capace di amare un altro uomo. Infatti per lui un altro uomo è sempre una minaccia alla sua propria sovranità. In questo meccanismo di orgoglio la coordinata “l’altro” diventa oggetto di invidia, di irritazione e di odio, vizi che nella cecità spirituale spesso vengono considerati manifestazioni di un carattere forte. Istituendo la Chiesa, il Signore ha dato inizio a una diversa logica dei rapporti interpersonali. Ricordo le parole della preghiera liturgica al momento della frazione dell’Agnello, che esprimono chiaramente questa logica:
“Viene frazionato e diviso l’Agnello divino, frazionabile e indivisibile, sempre mangiato e mai consumato, ma santificante per coloro che ne partecipano”.
Qui vediamo la confutazione dell’individualismo, per il quale la divisione è simile alla morte. E insieme c’è qui un paradosso: l’Agnello Divino viene frazionato e al tempo stesso rimane indivisibile. Viene mangiato, ma esso non si consuma. In questo sta il paradosso della vittima, la paradossalità del sacrificio come forma di pensiero e modo di vita. Così il dare diventa sorgente del ricevere, e la morte l’inizio della nascita. Seguendo questa logica, noi ci asteniamo dall’assecondare il nostro “io”, comunque si esprima questo assecondare: sotto forma di emozioni psichiche o nella aspirazione alle comodità materiali. Il senso di questo astenersi è il Signore stesso: noi rinunciamo a qualcosa al fine di fare spazio in noi alla Grazia divina. Questo astenersi, insieme al tendere della volontà verso Cristo, si chiama “digiuno”, che secondo il beato Giovanni Climaco è “causa del distacco dalle passioni, risoluzione dei peccati, porta del paradiso e godimento celeste”.
Tuttavia il digiuno produrrà frutti solo quando sarà unito al discernimento. Il discernimento, come una lancia affilata, deve troncare le passioni e aprire all’anima pentita il suo stato autentico. Possiamo dire che con il digiuno è la nostra carne che viene offerta come culto razionale a Dio (cf. Rm 12,1). La parola russa plot’ (carne) ha la stessa radice dell’aggettivo plotnyj (denso, compatto) che in questo contesto si può intendere come impenetrabile alla luce. In tal modo lo smembramento dell’uomo carnale con la lancia del digiuno “razionale” (con “discernimento”) fa sì che la carne diventi penetrabile per la luce della Grazia divina. Comprensibilissime diventano allora le parole del monaco sinaita Giovanni Climaco riguardo al digiuno, che è “lampada nella tenebra, ritorno dell’errante sulla giusta via, illuminazione di chi non vede”.
Separando il buono e il cattivo nella propria anima, possiamo di nuovo raccoglierla in unità. E questa novità riguarderà anche le passioni in quanto forze della nostra anima. Infatti le passioni sono un male e portano sofferenza quando sono generate dalla natura umana peccatrice. Ma esse possono e devono avere un orientamento buono nelle loro azioni. Non a caso nella letteratura ascetica vi è l’espressione “passione scevra di passioni”. Con tale formula si indica un tendere dell’uomo a Dio che non sia oscurato dall’orgoglio.
(...) L’esortazione di Nicola Cabasila a glorificare Dio per amore di Dio stesso ci riporta nuovamente al fatto che il podvig ascetico non è un fine in se stesso dell’esistenza umana, ma un cammino che conduce dall’umanità alla divino-umanità. Così la triade evangelica “via, verità e vita” si rivela nello stesso Signore nostro Gesù Cristo.
FILARET DI MINSK
esarca patriarcale di Bielorussia
e presidente della commissione teologica
del Patriarcato di Mosca