L'esempio dei monaci ortodossi
XVIII Convegno Ecumenico Internazionale di spiritualità ortodossa
COMUNIONE E SOLITUDINE NELLA TRADIZIONE ORTODOSSA
Bose, 7-10 settembre 2011
in collaborazione con le Chiese Ortodosse
COMUNIONE E SOLITUDINE
La Stampa, 8 settembre 2010
E’ sorprendente a volte constatare quanto la millenaria tradizione cristiana orientale possa suggerire a ciascuno di noi oggi, indipendentemente dalla propria visione metafisica. Il XVIII Convegno Ecumenico Internazionale che si apre stamattina a Bose, sotto gli auspici congiunti dei patriarchi di Costantinopoli e di Mosca e alla presenza dei massimi teologi e studiosi di tutto il mondo oltre che del plenum delle gerarchie ecclesiastiche e monastiche d’oriente e occidente, è dedicato alla dialettica tra «solitudine» e «comunione» nell’antica spiritualità ortodossa. Un bagaglio sapienziale apparentemente remoto, eppure in grado di offrire diagnosi e perfino terapie per il mondo odierno, affetto da una pandemia crescente di mali psichici individuali e sociali: la depressione, l’ossessione della sicurezza, l’ansia del possesso, la crisi della coppia, la fuga nelle droghe, venuto meno l’«oppio dei popoli» dei credo religiosi più elementari. L’elemento dell’individualità, della solitudine dell’io di fronte al mondo, è al centro della tensione filosofica contemporanea.
Dinanzi alla rivelazione dell’inutilità, precarietà, assurdità, finitudine, in definitiva del fallimento di ogni esistenza, l’individuo che si è scoperto solo non ha trovato ricette. Gli è sempre più difficile, dopo che anche le grandi utopie politiche terrene sono crollate, convivere con se stesso e con i propri simili. Eppure fin dai suoi inizi il pensiero monastico aveva preso atto di questa condizione esistenziale. Già la parola monaco, dal greco monachós, significa «persona sola». La solitudine dell’io nel mondo, ma anche la sua unicità e infinità interiore, erano state comprese a fondo. Una folla di «persone sole», consce dell’inconsistenza del possesso materiale, dell’evanescenza del successo sociale, dell’illusorietà dell’amore — quella fusione e comunione solo apparente tra individui procurata dall’eros carnale —, aveva individuato ricette di sopravvivenza e sperimentato una via che sarebbe stata seguita per secoli, scandita da norme precise e ancora oggi salutari, se ben comprese, anche per chi non crede a un Mistero trascendente, ma solo a quello immanente dell’es.
SILVIA RONCHEY