Bose, riflessione su «Comunione e solitudine» con gli ortodossi
XVIII Convegno Ecumenico Internazionale di spiritualità ortodossa
COMUNIONE E SOLITUDINE NELLA TRADIZIONE ORTODOSSA
Bose, 7-10 settembre 2011
in collaborazione con le Chiese Ortodosse
Toscana oggi, 19 settembre 2010
di CHIARA SANTOMIERO
Era dedicato al terna «Comunione e solitudine» il convegno ecumenico internazionale di spiritualità ortodossa che si è svolto tra l'8 e l'11 settembre al monastero di Bose (Biella) in collaborazione con le Chiese ortodosse. L'iniziativa, giunta alla sua XVIII edizione, accoglie 230 partecipanti in rappresentanza dei Patriarcati di Antiochia, Romania, Bulgaria e Serbia, della Chiesa ortodossa ucraina, dell'Esarcato di Bielorussia, della Chiesa ortodossa d'America, dell'arcidiocesi ortodossa d'Italia, delle Chiese di Grecia e d'Inghilterra, della Chiesa apostolica armena oltre che del Consiglio ecumenico delle Chiese, dei Pontifici Consigli per le Chiese orientali e per l'unità dei cristiani e della Cornmissione Cei per l'ecumenismo. Obiettivo della riflessione è riscoprire «la relazione feconda tra comunione e solitudine come poli costitutivi del vivere umano, con particolare riferimento all'esperienza monastica». Ai partecipanti, Benedetto XVI ha inviato un messaggio «per esprimere il suo apprezzamento» per «la lodevole e promettente perseveranza di tali appuntamenti di carattere ecumenico», mentre il card. Angelo Bagnasco, presidente della Conferenza episcopale italiana, ha ricordato che «l'esperienza cristiana, orientale e latina, costituisce ancora una risorsa di umanità e di sapienza» per l'uomo contemporaneo. «Il dinamismo tra comunione e solitudine, tra individuo e comunità ha affermato Enzo Bianchi, priore di Bose è un tema che interessa tutta la Chiesa ma che tocca da vicino anche gli uomini del nostro tempo». Essi, infatti, «vivono spesso una solitudine non feconda che si traduce in isolamento, schiacciati da una massificazione che impedisce una vita spirituale intensa».«Nella società contemporanea - ha sottolineato mons. Kurt Koch, presidente del Pontificio Consiglio per l'unità dei cristiani, in un Messaggio inviato al convegno - tanti uomini e donne sembrano aver risolto tragicamente questa tensione dialettica sopprimendola». Ne deriva «una diffusa incapacità di vivere positivamente l'esperienza della solitudine» così come «la difficoltà di vivere esperienze di vera comunione». «Il cristianesimo nelle sue diverse tradizioni - ha concluso - può offrire tin contributo all'uomo d'oggi per uscire dalla crisi».
«La ricerca spirituale - ha affermato il vescovo lrinej di Backa, del Patriarcato di Serbia, membro della Commissione teologica mista tra Chiesa ortodossa e cattolica, nel suo intervento su "Chiesa ed esperienza monastica" - deve essere collocata nella comunione ecclesiale affinché non diventi una pretesa di autosufficienza». In Occidente come in Oriente, l'evoluzione storica delle comunità monastiche ha significato un'autonomia che può portare alla separazione dalla Chiesa locale, ad «una tensione tra monachesimo e gerarchia che rappresenta la tensione tra istituzione e carisma». «L'ascesi - ha sottolineato il vescovo serbo - se isola e fossilizza porta a pericoli per la comunità monastica, ma anche al rapporto tra monachesimo e Chiesa nel suo complesso, senza la quale il monachesimo non esiste». Infatti «l'ascesi è priva di senso se non è introduzione alla vita eucaristica che è la vita di tutta la Chiesa» e «anche molta preghiera, se non ci sente di appartenere all'unica Chiesa, diventa pericolosa». I monaci devono «avvertire il senso della paternità del vescovo così come questi deve rispettarne l'autonomia». «Chi crede unicamente nella propria virtù - ha concluso Erinej di Backa - si stacca dalla comunione e scade nella setta, in un'esperienza malata di para-Chiesa».
«Nella tradizione bizantina - ha spiegato Kriton Chriyssochoidis, della Facoltà teologica di Atene - sono presenti varie modalità di monachesimo: l'anacoretisnìo, cioè il ritirarsi a vivere in solitudine, convive in parallelo con i cenobi di san Pacomio che rappresentano la conciliazione ideale del deserto con lo spirito di comunità». Entrambi «hanno in comune il primato dell'ascesi personale» e «funzionano da catalizzatore per il cambiamento spirituale dell'individuo». È una cronologia superata quella che vorrebbe «uno sviluppo per fasi successive del monachesimo dall'erernitismo alla lavra al cenobitismo» che cela «una concezione distorta per cui ciò che è piu vecchio è migliore, con sentimenti nostalgici e paragoni senza sostanza tra una vita rude ma più libera degli asceti, cui sarebbe seguita una vita più "morbida" e sottomessa nelle comunità».
In realtà «ognuno si volge al tipo di vita che più gli si addice». «Per alcuni santi dell'antica Russia - hanno concordato Tat'jana Karbasova eTat'jana Rudi, dell'Accademia delle scienze di San Pietroburgo - l'eremitaggio era l'inizio del cammino monastico» ma più spesso «gli asceti si ritiravano nel "deserto interiore" dopo molti anni vissuti nel monastero sotto la guida dello starec». Infatti «l'uscita dal monastero per la vita solitaria e il perfezionamento spirituale era consentito solo ai monaci provati». Di solito «attorno a un eremita famoso per il suo ascetismo si creava una nuova fratellanza monastica». «Questa dinamica - hanno concluso le studiose russe - incarna visibilmente il vicendevole influsso dei due criteri principali della vita monastica: comunione e solitudine».
di CHIARA SANTOMIERO - Bose