Il dono dell'ospitalità - Conclusioni
XXV Convegno ecumenico internazionale di spiritualità ortodossa
IL DONO DELL'OSPITALITÁ
Monastero di Bose, 6-9 settembre 2017
in collaborazione con le Chiese ortodosse
Vanto dei cristiani è l’accoglienza dei forestieri e la compassione verso di loro.
Vanto e salvezza dei cristiani è avere sempre come commensali alla propria tavola poveri,
orfani e forestieri, poiché da una tale casa Cristo non si allontanerà mai!
Sant᾽Efrem il Siro
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p. Michel Van Parys
a nome del Comitato scientifico
Da venticinque anni i fratelli e le sorelle del Monastero di Bose ci fanno il dono della loro ospitalità generosa e ormai divenuta proverbiale. L’ospitalità ricevuta qui tuttavia non ci può fare dimenticare le tragedie vissute da milioni di esseri umani che fuggono guerre, carestie e catastrofi naturali, persecuzioni etniche o religiose. Sono più di 200 milioni oggi nel mondo… Sono altrettanti poveri Lazzaro che gemono o muoiono alla porta delle nostre società ricche, le quali rifiutano addirittura di restituire le briciole di quello che hanno derubato o che derubano ancora presso quegli stessi poveri. Le conclusioni proposte intendono solo richiamare alcune convinzioni e idee forti emerse dalle relazioni e rendere esplicite, per quanto possibile, alcune domande sorte durante i dibattiti. La figura del patriarca Abramo ci ha accompagnato durante tutto il convegno: “Per fede, Abramo, chiamato da Dio, obbedì partendo per un luogo che doveva ricevere in eredità, e partì senza sapere dove andava. Per fede, egli soggiornò nella terra promessa come in una regione straniera … Egli aspettava infatti la città dalle salde fondamenta, il cui architetto e costruttore è Dio stesso. Per fede, anche Sara, sebbene fuori dell'età, ricevette la possibilità di diventare madre, perché ritenne degno di fede colui che glielo aveva promesso” ( Ebr 11,8-11 ).
Quando improvvisamente si presentano ad Abramo tre viaggiatori, lo straniero che egli è si affretta a dare ospitalità agli stranieri sconosciuti. La sua philoxenía ha permesso ad Abramo di accogliere, a sua insaputa, degli angeli (cf. Ebr 13,2 ). I padri della Chiesa, al seguito della Lettera agli Ebrei, hanno potuto discernere nella teofania alle querce di Mamre una manifestazione profetica del Verbo incarnato o un simbolo della Santa Trinità. All’ospitalità offerta da Abramo, Dio risponde con il dono di un figlio, l’erede della promessa fatta a Israele e il portatore della benedizione che si estenderà a tutti i popoli. Alcuni commentatori affermano che Abramo e Sara hanno potuto mettere al mondo questo figlio perché hanno mangiato gli avanzi del pasto preparato per gli angeli. Isacco è il frutto dell’ospitalità di Abramo e di Sara che, in verità, già hanno accolto Cristo: “ero straniero e voi mi avete accolto” ( Mt 25,35 ). Lo straniero che accoglie lo straniero, poiché fa l’esperienza di vivere da straniero, cioè della xenitéia , sarà una caratteristica costante del “dono dell’ospitalità”, nella Sacra Scrittura e nella vita cristiana.
Bisogna aggiungervi una dimensione che abbiamo appena sfiorato. Abramo onora i suoi ospiti. Sta in piedi vicino a loro mentre mangiano, come un servitore (Gn 18,9). Inoltre, onora i suoi ospiti accompagnandoli per un buon tratto di cammino. Questo cammino conduce a Sodoma e Gomorra. Dio considera ormai il patriarca come suo amico (Is 41,8; Gc 2,23), ne fa il suo confidente, nella segreta speranza che Abramo interceda per l’umanità peccatrice (Gn 1,16-33). Quando l’uomo ha pietà del suo prossimo che è peccatore la giustizia di Dio si fa misericordia. Tale è la forza delospitalità. Con accenti specifici, questo schema fondamentale è ripreso nell’Esodo. Israele, straniero oppresso e sfruttato in Egitto, è liberato dalla propria miseria umiliante. La ripresa di questa esperienza fondatrice farà del popolo eletto il popolo ospitale del Dio ospitale. Abiterà egli stesso una terra che appartiene solo a Dio. “Mio padre era un Arameo errante che discese in Egitto…” (Dt 26,5-10), diranno i figli di Israele presentando a Dio le primizie della terra promessa… Questa stessa sequenza fondatrice è presente nella vita del Messia, il Signore Gesù: è uno straniero accolto dai piccoli e dai semplici ed escluso dai ricchi e dai potenti. Gesù straniero è lui stesso uno straniero ospitale, icona di Dio, Padre ospitale. Egli nutre il suo popolo nel deserto, il Risorto nutre la sua chiesa del suo proprio corpo e sangue, fino alla parusia. Noi pellegrini in cammino verso la nostra patria celeste (cf. Fil 3,20) siamo sostenuti dal nutrimento che è Egli stesso.
Il patriarca Bartholomeos, nella sua bella meditazione teologica, che ha esplorato il cuore della vocazione di Abramo e di Mosè, ci ha mostrato che Dio ha già inscritto nel gesto della creazione la relazione ospitale che realizzerà, nonostante la disobbedienza dell’uomo nella salvezza attraverso il suo Figlio. La creazione anticipa la nuova creazione. La creazione di Dio è “ospitale” ed è affidata alla responsabilità umana, che deve custodirla abitabile e accogliente. Non c’è nulla di sorprendente, dunque, se il dovere o piuttosto il privilegio dello straniero che accoglie gli altri stranieri resta operante nella vita della Chiesa e del cristiano. Il cristiano è in transito su questa terra, è un passante, un viaggiatore in cammino verso il Regno. Ma è uno straniero che Dio visita . Dio lo visita in modo improvviso, nel momento meno opportuno. Abramo è sorpreso nel momento più caldo del giorno (cf. Gen 18 ), Mosè mentre pascola il gregge (cf. Es 3 ), Zaccaria durante l’ufficiatura nel tempio (cf. Lc 1 ). La visita accolta diventa luogo, spazio di incontro divino e umano. L’incontro fonda l’amicizia e avvicina il nemico, come abbiamo ascoltato dal vescovo Epifanio di San Macario nella sua relazione sull’accoglienza dei nemici. Un apoftegma illustra meravigliosamente la forza pacificante dell’ospitalità: “C’era un anziano cheabitacva in un luogo deserto. Lontano da lui ce n’era un altro, un manicheo, ed era un sacerdote, o almeno uno di quelli che i manichei chiamano sacerdoti. Un giorno, mentre si stava recando da uno dei suoi correligionari, fu sorpreso al calar del giorno nel luogo dove l’altro abitava. Volendo bussare ed entrare da lui fu preso da angoscia: sapeva che l’anziano lo conosceva quale manicheo e si domandava se avrebbe accettato di riceverlo.
Spinto dalla necessità, bussò. Il vegliardo gli aprì, lo riconobbe, lo ricevette con gioia, lo spinse a pregare e dopo averlo rifocillato lo fece dormire. Il manicheo rientrando in se stesso quella notte si meravigliò: ‘Come mai non ha alcun sospetto nei miei confronti? Davvero questo è un uomo di Dio’. E si gettò ai suoi piedi dicendo: ‘Da oggi sono ortodosso’. Fu così che rimase con lui”. (Les Apophtegmes de Pères. Collection systématique II, SC474, Paris, 2003, cap. XIII 12, pp. 238-239) Ci è stata raccontata la storia del monastero dei georgiani (Iviron), sul Monte Athos. Sant’Atanasio l’Athonita aveva fondato la Grande Laura nel 963. Vi accolse dei novizi georgiani, tra i quali il padre del futuro sant’Eutimio di Iviron, il Crisostomo georgiano. Alcuni monaci latini, tra cui Leone di Benevento, dopo la fondazione del monastero di Iviron (982), furono a loro volta accolti dai monaci georgiani che dissero loro: “Noi siamo qui degli stranieri, proprio come voi: venite da noi”. I monaci di Iviron aiutarono in seguito i monaci benedettini a fondare il monastero latino degli amalfitani, che durò fino alla fine del XIII secolo. “Vivere e pregare insieme” come stranieri porta il frutto della pace e della riconciliazione. Parliamo volentieri della virtù dell’ospitalità. Certo, l’ospitalità è una virtù da praticare. Ma questo convegno ha dimostrato che essa è come un sacramento del Cristo risorto, che si rende presente ( par-ousía ). L’apparizione del Risorto ai due pellegrini di Emmaus ne è una rivelazione tanto discreta quanto eclatante. San Gregorio Magno la interpreta in una sua Omelia sui Vangeli nel 591: “Era necessario che [i due pellegrini di Emmaus] fossero provati per vedere se coloro che non lo amavano ancora come Dio potessero almeno amarlo come straniero.
Non potevano essere stranieri alla carità, poiché la Verità camminava con loro, ed essi l’invitavano a essere loro ospite come si fa per uno straniero. Perché diciamo: ‘l’invitavano’, mentre sta scritto: ‘lo pregavano con insistenza’? Da questo esempio si può concludere che non si deve soltanto invitare gli stranieri come ospiti, ma li si deve pregare… Il Signore non è stato riconosciuto mentre parlava, ma si è degnato di farsi riconoscere durante il pasto offerto. Fratelli amatissimi, abbiate il desiderio di offrire l’ospitalità, amate la pratica della carità!” ( Hom . 23,1-2). L’insistenza, quasi la costrizione, la diaconia dell’ospitalità, si muta in visita eucaristica del Signore risorto. Non siamo forse invitati ad assumere insieme la diaconia dell’ospitalità, sempre restando in ascolto delle parole delle Scritture, al fine di affrettare il giorno del Calice condiviso? Sua Beatitudine il patriarca Theodoros II di Alessandria ci ha parlato dell’Africa, ponendo la domanda dell’ospitalità che oltrepassa l’accoglienza personale. Che cosa possiamo fare, che cosa dobbiamo fare, in quanto chiese, per mettere in opera delle strutture di ospitalità in grado di accogliere un afflusso in massa di rifugiati? Come poterlo fare in modo responsabile? “Papa Francesco, il Patriarca Bartholomeos e l’Arcivescovo Ieronymos, nella loro dichiarazione congiunta firmata a Lesbo il 16 aprile 2016, hanno mostrato che la vera responsabilità non è di limitare l’ospitalità, ma al contrario di estenderla, e al contempo rispondere alle cause stesse che portano uomini e donne a lasciare le loro case per cercare migliori condizioni di vita. In un modo simile, Papa Francesco e il Patriarca Kirill, nella loro dichiarazione congiunta del 12 febbraio 2016, chiamavano a risolvere prima di tutto le cause delle migrazioni, siano i diversi conflitti o l’ineguale distribuzione delle ricchezze”. ( Messaggio del cardinale Kurth Koch ). Ritorniamo tuttavia all’ospitalità personale o a quella dei gruppi in numero ristretto. L’ospitalità offerta e ricevuta fanno parte integrante del dialogo ecumenico cristiano e del dialogo interreligioso. Offrire l’ospitalità allo straniero che giunge improvvisamente sconvolge il nostro mondo umano e religioso.
Essa crea questa apertura che diventa un apprendistato di ciò che è altro e dell’altro, e dunque ci decentra e ci destabilizza. Imparo a vedermi e a vedere il mio piccolo mondo con gli occhi dell’altro. Convinzioni e sicurezze si incrinano o si frantumano. Offrire l’ospitalità è un rischio; ma anche ricevere l’ospitalità: ricevere l’ospitalità in un paese e in una cultura che non sono miei richiede la discrezione, o il discernimento, di colui che non è a casa sua, potenzialmente non compreso e umiliato, come Abramo (i patriarchi e il popolo) nella terra promessa (“Mio padre era un arameo errante…”). Questo crea una relazione di dipendenza (la vera povertà), dove io dipendo dall’umanità o dall’inumanità dell’altro, o dall’altro che si fa o non si fa mio prossimo. Accogliere ed essere accolto cambia il cuore. Chi accoglie riceve il vissuto delle tradizioni liturgiche e spirituali dell’altra Chiesa, riceve la sua testimonianza a Cristo. Sorge allora una questione: chi è accolto si aprirà a sua volta alla testimonianza della presenza dello Spirito Santo nell’altra Chiesa o si ripiegherà sulla sua propria tradizione considerata autosufficiente? La xenitéia abbracciata da alcuni monaci, raccomandata dai grandi santi monastici, come San Giovanni Climaco, ha richiamato gran parte della nostra attenzione. Il monaco si fa straniero alla mondanità del mondo per camminare sulle tracce di Abramo, di Mosé, del Signore Gesù. L’allontanamento fisico e psicologico dalla propria patria, dalla famiglia e della propria cultura, sono le modalità concrete della xenitéia monastica.
Essa rende il cuore del monaco attento allo straniero, all’ospite che, per necessità, si trova in quella situazione di povertà umana che egli stesso ha scelto per amore del Cristo. La frase del tropario che abbiamo ascoltato più volte in questi giorni (“Dammi quello straniero…”) diventa allora la preghiera del monaco che vive come straniero: “Che io possa accoglierti, Signore, accogliendo lo straniero!”. La xenitéia non è tuttavia propria soltanto dei monaci. La Russia ortodossa ha conosciuto (e forse conosce ancora) dei pellegrini ( stranniki ), che hanno scelto di vivere la dura ascesi fisica e spirituale del pellegrinaggio come un abbandono totale alla provvidenza di Dio e all’ospitalità dei fedeli. I cristiani del medio oriente sono diventati progressivamente, in molti luoghi, degli ospiti nella loro patria e nelle terre dei loro avi, dei protetti: sono trattati da stranieri nella loro stessa casa. Badiamo bene di non dimenticarcene oggi. Alcune comunità monastiche sono state – e alcune sono ancora – comunità multiculturali e multietniche. I discepoli di san Paisij Veličkovskij a Neamţ alla fine del XVIII secolo sono l’esempio di una convivialità sorprendente. La comunità di san Paisij, lo si deve ricordare, era stata preceduta nella storia da quelle di san Saba vicino a Gerusalemme e di Santa Caterina del Sinai. La convivialità multiculturale è un lungo apprendistato. Mitrofane, il biografo di Paisij, assicura che al monastero affluiva “una moltitudine incalcolabile di persone, uomini e donne, di ogni stato sociale, ricchi e poveri, e non solo dalla Moldavia ma anche da paesi lontani. E questo imitatore di Abramo nell’ospitalità si sforzava, per quanto possibile, di accoglierli tutti e dar loro un po’ di di ristoro… Durante questi quattro giorni [l’Ascensione, festa del monastero, e i giorni successivi] il beato non aveva nemmeno un minuto di riposo: la porta era aperta dal mattino alla sera e chi lo voleva poteva entrare da lui senza problemi” (A.E.N. Tachiaos, The Revival of Byzantine mysticism among Slavons and Romanians in the XVIIIth century. Texts relating to the life and activity of Paisij Veličkovskij, Thessaloniki, 1986). E tuttavia san Paisij, per preservare l’hésychia dei monaci, voleva limitare l’ospitalità…
La convivialità multiculturale insegna a vivere insieme aprendo il cuore e l’orecchio giorno dopo giorno a un fratello o una sorella che vengono da un’altra cultura. Nessuno è ancora “a casa sua”. Questa convivialità è un apprendistato concreto dell’ospitalità. Non è forse vero che, sempre più, la grande diversità degli ospiti che giungono nei nostri monasteri ci invita a un ascolto più affinato dell’ospite, a un’attenzione alla persona, alle sue sofferenze, a onorare la differenza culturale? In questo senso, le comunità monastiche multiculturali diventano segni di speranza. Vivere insieme, cioè la convivialità, è un’utopia realista! Non sono soltanto i paesi ricchi a essere sotto pressione per l’afflusso dei profughi. Anche le comunità monastiche fanno fatica ad accogliere il gran numero dei pellegrini, degli ospiti e di quello che è stato definito turismo spirituale. In ogni tempo il discernimento è necessario all’ospitalità, dai padri del deserto, passando per San Benedetto fino a Paisij Veličkovskij. E tuttavia rimane vero che, nella fede, è sempre il Cristo in persona che è ricevuto (cf. Regola di Benedetto 53), e quando un ospite si annuncia, secondo la Regola di san Benedetto il portiere deve rispondere: Deo gratias! , cioè: “Rendiamo grazie a Dio!”; oppure Benedic! , cioè: “Benedici!”. E quest’ultima espressione è ancora più paradossale: è l’ospite che benedice il monaco e non il monaco che benedice l’ospite ( Regola di Benedetto 66). I monaci ricevono nell’ospitalità più di quello che danno, secondo questa struttura profonda che abbiamo scoperto in Abramo.
Il nostro convegno è stato particolarmente sensibile alla questione dell’ospitalità eucaristica, e non posso che augurarmi che la questione rimarrà per tutti noi una spina nella carne. Il problema è stato posto innanzitutto dall’invito pressante e opportuno a ricollocare l’ecclesiologia eucaristica all’interno di una ecclesiologia battesimale. Una ecclesiologia fondata sul dono e sui tre sacramenti dell’iniziazione cristiana può e deve aiutare i cristiani a rispondere più correttamente all’ospitalità eucaristica, che è sempre offerta dal Signore Cristo stesso. È lui l’ospite che riceve. È stato citato questo bel canto della liturgia bizantina del giovedì santo: “Venite, fedeli, il pensiero elevato verso l’alto, beneficiamo dell’ospitalità del Signore e della tavola della vita immortale nella camera alta; ascoltiamo e comprendiamo l’insegnamento sublime del Verbo che noi magnifichiamo”. Nell’eucarestia latina, il prete o il diacono invitano i fedeli prima della santa comunione con queste parole: “Beati coloro che sono invitati alla cena dell’Agnello”. Abbiamo anche ascoltato un appello, un grido del cuore, affinché – a certe condizioni da discernere da parte dei pastori – i coniugi nei matrimoni interconfessionali possano ricevere insieme, durante la stessa divina liturgia, la santa comunione. Possiamo forse separare, alla tavola del Signore, ciò che il Signore ha unito indissolubilmente? Del messaggio che il Papa ha inviato possiamo ritenere una parola che è un programma: “ospitalità del cuore”, che potremmo tradurre anche come un “cuore ospitale”. Un Dio ospitale, il Cristo ospitale, delle comunità cristiane ospitali… Come dilatare lo spazio del nostro cuore (secondo l’espressione di san Benedetto nel Prologo della sua Regola , che riprende le parole del salmo 118,32 , dilatato corde )?
Come Abramo, riconoscendo per fede negli ospiti che vengono a visitarci nel momento più caldo del giorno la visita di Dio. Abramo promette un pezzo di pane e un po’ d’acqua, ma offre ciò che ha di meglio: il vitello grasso, il latte cagliato. Almeno offriamo, anche noi, qualcosina, come ha suggerito Papa Francesco: dei ricoveri da campo per curare i feriti e un tetto in ogni parrocchia e comunità per una famiglia esiliata. Un cuore che non ha mani non è discepolo del Cristo (cf. Gc 1,19-27 ). Terminiamo ora il XXV convegno di spiritualità ortodossa, dedicato al tema dell’ospitalità. I fratelli e le sorelle della comunità monastica di Bose ci hanno fatto dono, una volta ancora, di una magnifica e generosa ospitalità. Noi li ringraziamo dal fondo del cuore. Grazie a ciascuna e a ciascuno di loro! Per esprimere la nostra immensa gratitudine verso di loro permettetemi di riprendere, di ripetere le parole di Sua Santità il patriarca ecumenico: “Sotto la paterna guida del fondatore fratel Enzo Bianchi, e ora del nuovo priore, fratel Luciano, i fratelli e le sorelle di Bose hanno sempre saputo accogliere tutti con il Dono dell’Ospitalità … Il Signore, Datore di vita, vi benedica e continui a elargirvi doni e carismi per il bene delle Sante Chiese di Dio e per l’unione di tutti, e per la vostra crescita nel cammino monastico”.
Un grazie fraterno.
Michel Van Parys