XXVII Convegno ecumenico internazionale di spiritualità ortodossa
CHIAMATI ALLA VITA IN CRISTO
Nella chiesa, nel mondo, nel tempo presente
Monastero di Bose, 4-6 settembre 2019
“Quelli che vivono in Cristo sono chiamati con una chiamata costante e continua tramite la grazia impressa nell’anima dai misteri, questa grazia che è, come dice Paolo, Lo Spirito del Figlio di Dio che grida nel loro cuore: Abbà, Padre!”
Amatissimi vescovi!
Cari padri, monaci e monache, cari amici e ospiti!
Siamo infine giunti al termine di questi giorni di studio e di ascolto reciproco. Abbiamo riflettuto insieme su quello che sta al cuore del nostro essere cristiani: la vita in Cristo.
Le domande che avevano aperto il nostro cammino, che cosa significa la vocazione, che cosa significa essere cristiani ― ma ancor prima che cosa significa essere dei chiamati alla vita? ― hanno acquisito in questi giorni prospettive e dimensioni che forse non sospettavamo.
La vocazione, la chiamata di Dio che è già un atto efficace e creatore della sua Parola, come ricordavamo in apertura, ha una dimensione cosmica e non solo individuale; una dimensione personale e comunitaria, e ancora ― come abbiamo sentito poco fa ― una dimensione pubblica che s’incarna nella storia e nella vita della polis.
In questi giorni abbiamo imparato a vedere nella vocazione quel misterioso e ininterrotto dialogo tra Dio e l’uomo che mette in gioco la libertà e coinvolge tutta la persona: la sua volontà, le sue energie, i suoi desideri, la sua capacità di amare, di entrare in relazione con gli altri.
Nella narrazione biblica della vocazione profetica è in gioco la libera iniziativa di Dio ma al tempo stesso la capacità di ascolto del profeta, in una relazione costitutivamente personale. La chiamata di Dio mette in discussione le rappresentazioni che ci facciamo di noi stessi e l’immagine che ci costruiamo di Dio, come è accaduto nella vicenda di Elia, che non a caso nel monachesimo occidentale è stato preso a modello della vocazione del monaco.
La vocazione è una realtà dinamica, un’apertura al futuro sempre nuovo e sempre inatteso che il Signore prepara per noi. Dimenticare il passato ― secondo l’espressione di Paolo (Fil 3,13-14) ― non significa perdere le proprie radici, ma fare spazio a quel seme seminato in noi, alla Parola di Dio che è seme di vita nuova e diventa carne nella nostra vita, che fa di noi creature nuove.
In questa prospettiva, possiamo vedere come si incontrano la tradizione occidentale dell’imitazione di Cristo e quella orientale della divinizzazione, della thèosis, dell’inabitazione in noi dello Spirito che ci rende pienamente conformi a Cristo.
Ma questa vita in Cristo non è un modello morale sempre uguale a se stesso. Al contrario, è segnata dalla multiforme bellezza dei doni che sono dati a ogni persona, e che diventano carismi, doni offerti e condivisi per edificare nell’unità e nell’armonia il Corpo di Cristo.
Dove questa bellezza è spezzata, rotta dal fallimento dell’amore, dall’odio e dall’inimicizia, solo il perdono ― questo dono che viene dalla grazia di Dio, dono che è opera dello Spirito santo ― può restaurarla, ricostruire la fraternità delle relazioni, ristabilire in noi il volto di Cristo.
Abbiamo ascoltato lo sviluppo sorprendente che ha avuto in Efrem il Siro l’immagine dello specchio. Come scriveva Gregorio di Nissa, “lo sforzo umano è quello soltanto di ripulire la ruggine con cui il peccato ha ricoperto l'immagine per far brillare la bellezza nascosta dell'anima” (De virginitate 12).
Diverse relazioni ci hanno aiutato a entrare in questo misterioso legame tra bellezza e perdono, tra bellezza e salvezza, sintetizzanto nella domanda enigmatica di Dostoevskij: “È vero che la bellezza salverà il mondo?”.
La bellezza cui siamo chiamati non è un’astratto ideale, ma un concreto cammino nelle vicende del mondo creato, della storia. Il nostro essere sessuati è l’orizzonte in cui impariamo a diventare umani: qui si innestano quelle specifiche vie di sequela cristiana che sono il matrimonio, il tendere dell’uomo e della donna a essere uno in Cristo; e la via del celibato fecondo per il Regno, la via monastica nelle sue diverse forme, che ancora oggi assume in oriente e in occidente, come ci hanno testimoniato numerose relazioni.
La multiforme varietà e bellezza della vita ha la sua radice nel battesimo – morire a se stessi per rinascere a Cristo. La vocazione è sempre un esodo da sé, un fuoriuscire dal proprio egocentrismo per incontrare l’altro. Questa uscita da se stessi è il movimento del dono. Secondo la bella espressione di Dionigi citata questa mattina, “gli amanti non appartengono a se stessi, ma all’Amato”.
Nel quarto vangelo, a Filippo che vuole vedere il Padre, Gesù risponde: “Chi vede me vede il Padre”. Come ci è stato spiegato questa mattina, qui si manifesta la realtà di Dio: nell’amore che Gesù Cristo ha vissuto fino in fondo, fino all’estremo in obbedienza al Padre.
In Cristo l’amore diventa libertà, permette a ciascuno di riconoscersi nell’altro senza negare la propria particolarità.
In questa pluralità riconciliata e compaginata in unità sta anche ― lo abbiamo sentito poco fa ― la vocazione specifica di una comunità cristiana, che non è mai separata dalla compagnia degli uomini e delle donne impegnati nell’avventura dell’esistenza, ma è chiamata a mostrare la fraternità, cioè a vivere il comandamento nuovo dell’amore. “Che cosa è proprio del cristiano?” ― si chiedeva Basilio il Grande, e rispondeva: “Amarsi gli uni gli altri come anche il Cristo ha amato noi” (Regola Morale 80,22)