Gesù, straniero sulla terra
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“Il mio regno non è di questo mondo” (Gv 18,36), rivela Gesù a Pilato durante l’interrogatorio del processo narrato nel Vangelo secondo Giovanni. Così Gesù prende posizione contro le categorie autoreferenziali e autosufficienti del potere, e dichiara la sua stranierità rispetto a “questo mondo”. Se il regno di Gesù fosse di questo mondo, i suoi servitori avrebbero combattuto perché non fosse consegnato ai sommi sacerdoti e poi ai romani (cf. Gv 18,36).
“Sei tu il re dei giudei?” (Gv 18,33), aveva chiesto Pilato poco prima; “Dici questo da te, oppure altri ti hanno parlato di me?” (v. 34) è la risposta di Gesù. Gesù invita Pilato a prendere lui stesso posizione, e prima ancora a chiedersi se le parole che pronuncia sono pensate da lui, o sono solo parole ripetute, “copiate” da altri.
Potremmo domandarci: quando ci rivolgiamo a una persona, teniamo conto di chi realmente quella persona è, o ci rivolgiamo a lei sulla base di quello che altri hanno detto? Lasciamo che chi abbiamo di fronte dica lui di se stesso, o ci lasciamo manipolare, come Pilato, da quello che i “capi” hanno suggerito di pensare?
Anche noi, come Pilato, siamo invitati ogni giorno a uscire dalla nostra personale comprensione della realtà, a resistere all'impulso di immettere qualcuno nel nostro mondo e linguaggio, per incontrare l’altro in verità e accogliere davvero il Cristo che è in lui. La sfida è abituarci a pensare all’altro che abbiamo di fronte come a uno “straniero”, altro da noi ma non estraneo. Riconoscere che la nostra modalità abituale di approcciarci agli altri è, in certi casi, inadeguata; significa permettere che l’altro continui a essere altro, piuttosto che diventare un membro fallito del nostro mondo di riferimento o un parlatore incompetente del nostro linguaggio. Imparare da quello “straniero” può essere occasione perché il nostro (piccolo) mondo venga ampliato in modi che vanno al di là dei nostri piani e del nostro controllo.
Nella narrazione del vangelo secondo Giovanni, Pilato finisce per agire contro la propria convinzione dell’innocenza di Gesù, pur di assicurare la propria posizione minacciata rispetto al favore imperiale. Perde l’occasione di incontrare veramente l’uomo che gli sta di fronte: un re come non se ne sono mai visti prima, uno che non si fregia dell’applauso della gente, che non si gongola e non si compiace del giudizio positivo delle persone. Un re che, proprio nella nudità di un uomo trattato come schiavo, flagellato, incoronato di spine, splende di una gloria che nessuno può strappargli, la gloria di chi ama gli altri fino alla fine (cf. Gv 13,1), di chi acconsente a dare la vita per loro (cf. Gv 15,13), rimanendo nell’amore (cf. Gv 15,9). Ecco il mondo di cui Gesù è re: quello dell’amore vissuto e mai contraddetto.