I frutti della comunione

Carta realizzata presso la fraternità di Civitella san Paolo (RM)
Carta realizzata presso la fraternità di Civitella san Paolo (RM)

28 agosto 2024

Gv 15,9-17

In quel tempo Gesù disse ai suoi discepoli: 9Come il Padre ha amato me, anche io ho amato voi. Rimanete nel mio amore. 10Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore. 11Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena. 12Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi. 13Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici. 14Voi siete miei amici, se fate ciò che io vi comando. 15Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamato amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio l'ho fatto conoscere a voi. 16Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga; perché tutto quello che chiederete al Padre nel mio nome, ve lo conceda. 17Questo vi comando: che vi amiate gli uni gli altri.


In questa memoria di Agostino leggiamo una parte del discorso di Gesù ai suoi discepoli dopo la lavanda dei piedi. Il “discorso di addio”, una lunga consegna di parole importanti, profonde, intense da parte di Gesù che si prepara a lasciare i suoi compagni.

Appena prima ha usato l’immagine della vite (lui stesso) dell’agricoltore (il Padre) e dei tralci (i discepoli) per indicare la via per la vita “con molti frutti”. È la comunione con lui che ci rende capaci di dare un frutto, come i tralci traggono linfa dalla vite, e con la luce del sole e l’opera del vignaiolo che li pota la trasformano in frutti. Frutti di cui non viene detto il destino… sono lì, sono prodotti: per altro, per altri.

 Nei versetti di oggi ecco altri termini: le parole “rimanere” e “amore/amare” sono ripetute più volte. La relazione di amore fra Gesù e il Padre diventa linfa che alimenta la vita del discepolo. E a noi è chiesto di “abitare” questa relazione, farne la nostra dimora ovvero il nostro spazio vitale in cui trovare tutto ciò di cui abbiamo bisogno.

A noi è chiesto di lasciarci condurre con docilità da questa certezza che in noi opera quella linfa, quel voler bene del Padre verso il proprio Figlio che ci fa diventare figli noi stessi, non schiavi sottomessi a un padrone, ma figli amati, amici che sono messi a parte di ogni parola scambiata fra il Padre e il suo Figlio prediletto. Come un vignaiolo accorto che guarda con attenzione la sua vite, i tralci, e li prende fra le sue mani, li accompagna nella crescita, li indirizza con sagge potature, con ogni cura, così dobbiamo sentire verso noi stessi l’identico sguardo, la stessa cura, la stessa volontà di vita.

Certo una potatura è una ferita, ma che diventa sorgente di vita nuova e non va temuta; essa non deve creare paura o panico. Va accolta con fiducia perché generativa di un frutto pieno che è destinato a rimanere (v. 16) cioè ad avere in sé la stessa ampiezza, profondità, intensità della relazione fra il Padre e il Signore Gesù. Il frutto diviene a sua volta portatore di ciò che l’ha fatto crescere, l’amore del Padre, il rimanere con Lui… 

Frutto che, in maniera inaspettata, diventa “gioia” e “gioia piena” (v.11). E la gioia appartiene ai discepoli, ma come il frutto della vite è destinato ad altri: né alla vite, né ai tralci; è qualcosa che si irradia da noi per altri, per altro, per coinvolgere ciò che è attorno a noi e renderlo partecipe di quanto viviamo nel nostro cuore. Nel linguaggio corrente si associa la gioia a un volto luminoso, a uno sguardo felice, a un sorriso. Non si dice “sprizza di gioia”? Proprio così, questa gioia piena deve diventare contagiosa, va lasciata libera, va donata proprio come il Signore ha donato tutto se stesso. È in noi, ma non solo per noi…

Non è stato forse così per Agostino? Nella sua vita travagliata, inquieta, ferita potremmo dire, quest’uomo ha trovato finalmente pace nel “rimanere” nel Signore (“Il nostro cuore è inquieto finché non riposa in te”, Confessioni I.1.1) e ci ha donato fino alla fine, con i suoi scritti e con la sua vita, i frutti di questa intimità scoperta e amata “troppo tardi”. 

fratel Marco