Vesti splendenti

Carta realizzata presso la fraternità di Civitella san Paolo (RM)
Carta realizzata presso la fraternità di Civitella san Paolo (RM)

6 agosto 2024

TRASFIGURAZIONE DEL SIGNORE
Professione monastica di fratel Simone
Marco 9,1-10 (Dn 7,9-10.13-14 – 2Pt 1,16-19)

In quel tempo1 Gesù diceva ai suoi discepoli: «In verità io vi dico: vi sono alcuni, qui presenti, che non morranno prima di aver visto giungere il regno di Dio nella sua potenza». 2Sei giorni dopo, Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e li condusse su un alto monte, in disparte, loro soli. Fu trasfigurato davanti a loro 3e le sue vesti divennero splendenti, bianchissime: nessun lavandaio sulla terra potrebbe renderle così bianche. 4E apparve loro Elia con Mosè e conversavano con Gesù. 5Prendendo la parola, Pietro disse a Gesù: «Rabbì, è bello per noi essere qui; facciamo tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia». 6Non sapeva infatti che cosa dire, perché erano spaventati. 7Venne una nube che li coprì con la sua ombra e dalla nube uscì una voce: «Questi è il Figlio mio, l'amato: ascoltatelo!». 8E improvvisamente, guardandosi attorno, non videro più nessuno, se non Gesù solo, con loro.
9Mentre scendevano dal monte, ordinò loro di non raccontare ad alcuno ciò che avevano visto, se non dopo che il Figlio dell'uomo fosse risorto dai morti. 10Ed essi tennero fra loro la cosa, chiedendosi che cosa volesse dire risorgere dai morti.


Cari fratelli e sorelle,
cari amici e ospiti,

anche quest’anno ci è fatto dono di riascoltare l’Evangelo, la buona notizia, della trasfigurazione del Signore. Buona notizia che, come uno squarcio di luce, ci raggiunge nelle nostre vite, nei nostri cammini impastati di luci e di ombre. Buona notizia che, come credenti, siamo chiamati a far risuonare in questo nostro mondo, abbagliato da luci che spesso sfigurano anziché trasfigurare; che spesso accecano anziché illuminare. Bagliori che sfigurano volti di uomini, donne e bambini; che sfigurano popoli e legami di fraternità; che sfigurano case, strade e quanto l’ingegno umano ha saputo creare; che sfigurano la nostra madre terra.

Parte solidale di questo mondo, consapevoli delle nostre contraddizioni ma anche della nostra vocazione, siamo qui questa notte e vogliamo, ancora una volta, aprire il nostro cuore per accogliere la buona notizia della trasfigurazione; e poi farcene annunciatori, discretamente ma con convinzione e responsabilità, con la vita più che con le parole. Vogliamo essere testimoni di bellezza… la bellezza di cui i discepoli videro circonfuso il Figlio amato del Padre.

Potremmo dubitare che abbia senso parlare di luce e bellezza proprio ora, dinanzi ai tanti spettacoli di disumanità cui assistiamo sgomenti e ad altri che menti folli minacciano. Invece ha senso più che mai, perché questo è l’Evangelo: una luce che le tenebre non possono sopraffare, perché non è di questo mondo, come ci ricorda proprio il vangelo di questa festa. Perché è una luce che viene da Dio stesso e che noi non possiamo distruggere. Possiamo ignorarla, coprirla, occultarla, sporcarla, negarla… ma non distruggerla.

La luce che questa notte ci viene annunciata penetra e abita la complessità. Il racconto evangelico che abbiamo appena ascoltato ce lo ricorda. La trasfigurazione, infatti, accade al cuore di cammini segnati da sofferenza e morte. L’esito tragico che si profila per Gesù, il cui primo annuncio precede il racconto della trasfigurazione: “Cominciò a insegnare loro che il Figlio dell’uomo doveva soffrire molto” (8,31). Il rinnegamento del proprio “io” e la croce che egli predice a chiunque voglia seguirlo: “Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua” (8,34). La fine insensata di Giovanni il Battista, ricordata subito dopo il nostro racconto, nelle parole di Gesù: “Hanno fatto di lui quello che hanno voluto” (9,13).

Ma proprio in quel clima, in quell’intrecciarsi di ombre, il racconto che abbiamo ascoltato apre uno squarcio di luce, capace di mostrare “il regno dei cieli nella sua potenza”. Così infatti inizia il nostro brano: “[Gesù] diceva loro: ‘In verità, in verità vi dico: vi sono alcuni qui presenti che non gusteranno la morte prima di aver visto il regno di Dio venire in potenza’ (en dynámei)” (v. 1). Quel regno, sempre presente, perché è Gesù stesso, presente nella storia, qui è mostrato per un istante “en dynámei”, in azione.

Questo è l’annuncio della trasfigurazione, che quest’anno abbiamo ascoltato nella versione più antica, quella di Marco, il quale, secondo la tradizione, fu discepolo di Pietro, uno dei tre che erano stati sul monte con Gesù. Quel Pietro che nella sua seconda lettera (ascoltata come seconda lettura) dice di aver visto e udito: “Siamo stati testimoni oculari della sua grandezza” (2Pt 1,16); e alla fine afferma: “Questa voce noi l’abbiamo udita discendere dal cielo mentre eravamo con lui sul santo monte” (2Pt1,18).

Il racconto di Marco è essenziale, fatto di luce e di voce, di visione che cede il posto alla parola. Gesù conduce tre dei suoi discepoli su “un alto monte, in disparte, loro soli” (v. 2). Qui è “trasfigurato (metemorphóthe) davanti a loro” e “le vesti divennero splendenti e bianchissime” (v. 2-3). Accanto a lui compaiono Elia e Mosè che “conversavano con Gesù” (v. 4). Pietro reagisce con parole fuori luogo e insieme agli altri è preso dallo spavento (v. 5-6). La nube della presenza di Dio li ricopre e da essa esce una voce che proclama: “Questo è il Figlio mio, l’amato, ascoltatelo!” (v. 7). E poi tutto finisce: “Guardandosi attorno”, constatano che “Gesù era solo, con loro” (v. 8).

L’essenziale del racconto sarà poi ripreso anche a Matteo e Luca. Ma c’è qualcosa in Marco che non passa agli evangelisti successivi e che, per questo, possiamo considerare il suo segno distintivo. Un particolare sul quale questa notte vorrei soffermarmi, pensando al momento che stiamo vivendo comunitariamente, mentre ci prepariamo ad accogliere il “sì” di un nuovo fratello, Simone; e mentre tutti noi, fratelli e sorelle, ridiciamo il nostro “sì” al Signore e gli uni agli altri.

Dopo aver detto che Gesù “fu trasfigurato davanti a loro”, Marco spiega: “Le sue vesti divennero splendenti, bianchissime: nessun lavandaio sulla terra potrebbe renderle così bianche” (v. 3).

Una prima annotazione è che Marco parla solo di vesti e non di volto. Matteo e Luca sentiranno il bisogno di aggiungere il volto. Così leggiamo in Matteo: “Il suo volto brillò come il sole e le sue vesti divennero candide come la luce” (Mt 17,2). Sentono il bisogno di allargare lo sguardo al volto e dunque al corpo di Gesù.

Marco si concentra sulle vesti, su ciò che copre il corpo, cogliendo lì gli effetti della luce che si sprigiona dal corpo trasfigurato del Figlio. Quasi a dire che non solo Gesù è luce in se stesso, nel suo volto e nel suo corpo, nella sua carne, ma egli impregna di luce ciò che lo circonda, ciò che entra in contatto con lui. La sua luce è luce che irradia e rende luminoso tutto quello che tocca. La sua è una luce che permea, anche l’umile realtà di un vestito. È luce che si trasfonde nella materia!

È luce che abita le pieghe di quel povero tessuto che, nonostante la sua pochezza, è capace di accogliere e riflettere luce. Quando tutto sarò finito, quel tessuto tornerà al suo colore abituale, alla sua umile realtà. Ma ha mostrato di essere capace di luce.

Vi è qui un primo messaggio che l’evangelo di questa notte ci invita ad accogliere: le nostre povere realtà possono riflettere la luce anche quando rimangono povere. Questo nostro mondo può riflettere luce, anche quando rimane ferito e umiliato da violenze di ogni genere. Le nostre comunità possono riflettere luce, anche nelle loro miserie. Possono… se restano attaccate alla carne del Cristo, del Figlio amato.

Non ci è chiesto, né ci è dato di risolvere… ma di compaginare, di accettare che coesistano, in noi, nel nostro mondo, nelle nostre comunità, povertà e luce: poveri panni, opera di uomini e donne fragili, e luce che viene dall’alto.

E veniamo così all’altra stranezza di questo passo: quella insistenza che potrebbe sembrare persino grossolana, sulla capacità dei lavandai. Non era sufficiente dire che “le sue vesti divennero splendenti, bianchissime”? Perché quel tratto che potrebbe apparire rozzo? Ma Marco non si preoccupa di apparire poco fine letterariamente (mi piace immaginare che quella precisazione gli sia stata ispirata da Pietro, rude pescatore e apostolo sanguigno). La precisazione è essenziale perché afferma con forza che quella luce impregna le vesti, ma viene da altrove. Non è luce umana!

Ecco il senso in quella doppia particolarità: non il volto (non solo il volto, non solo il corpo), ma la materia, la realtà che lo tocca, ospita la luce divina; e poi quella luce è divina e tale resta!

Quello che i discepoli hanno visto viene dall’alto, viene da Dio stesso. La luce scorta per un istante dai discepoli sulle vesti del Maestro non è opera umana, ma un riflesso della luce di Dio, che tuttavia risplende non nelle altezze celesti, ma in un tessuto, in quel panno grezzo, povero e semplice, che probabilmente recava anche i segni del tempo.

Tutto questo cosa dice a noi, che ancora una volta leggiamo questo evangelo in questa notte, accogliendo la professione definitiva di Simone? Ci apre al senso di quello che siamo qui a fare… di quello che tu, Simone, stai per fare.

Ci ricorda che la luce non disdegna la povertà del nostro essere, le nostre contraddizioni e le nostre miserie. Può brillare nelle nostre povere esistenze, come ha brillato sulle povere vesti del Figlio amato del Padre. E al contempo ci ricorda che quella luce viene da altrove, non è umana, non è opera nostra.

Dunque, caro Simone - cari fratelli e sorelle - ciò che stai per fare non è opera tua: la luce, la forza, il coraggio non vengono da te. Eppure quella luce, quella forza, quel coraggio, si riflettono nella realtà che tu sei e che tu acconsentirai ad essere, ogni volta che avrai l’audacia di esporre te stesso, i tuoi pensieri, i tuoi affetti, le tue paure, le tue scelte… alla luce deificante del tuo Signore. E non temere se qualche volta sentirai che il panno che esponi a quella luce è troppo consunto o lacero o povero. La luce che viene dall’alto non ha bisogno di forti, ma di docili.

Ricorda sempre la parola di Marco, quell’affermazione che non ha nulla di rozzo: “Nessun lavandaio sulla terra potrebbe renderle così bianche”. Nessuno, proprio nessuno! Nessuno è artefice dei frutti dello Spirito che gli è dato di gustare e di mostrare, personalmente e comunitariamente. Nessuno è artefice, ma tutti collaboratori, più o meno attenti, dell’azione della grazia.

È bene che ce lo ricordiamo, soprattutto noi monaci e monache; e soprattutto in questa notte. Quello che ci è dato di vivere, quei brandelli di luce che vediamo di tanto in tanto riflettersi nelle nostre povere storie, sui nostri poveri panni, non sono opera nostra. Ci sono dati! Sono un dono. E quando ce ne dimentichiamo, è la fine.

E non è difficile dimenticarsene, perché a volte la luce è intensa, e quello che vediamo attorno a noi, riflettersi nelle nostre esistenze, appare davvero bello. Ci sentiamo allora capaci di cose grandi, dimenticando di essere solo ricettacoli, luoghi in cui la luce si riflette. Ma una luce che non ci appartiene. E che noi siamo solo povere stoffe.

La giusta misura può essere efficacemente custodita da un sentimento, che per un monaco, per un cristiano, e prima a ancora per un essere umano, è essenziale: la gratitudine. Solo chi è capace di gratitudine è in grado di non perdere la via, di non sviarsi per i sentieri dell’autoillusione, dove pian piano si annega nel vortice del proprio narcisismo.

E allora, in questa notte, vogliamo ancora una volta rendere grazie. Rendiamo grazie al Signore che ci fa dono di un nuovo fratello. Un fratello che noi ci impegniamo a custodire e al quale chiediamo di continuare a essere tra noi quel fratello attento e sollecito che abbiamo conosciuto in questi anni. In quell’abbraccio che ora ci scambieremo, caro Simone, vogliamo dirti il nostro grazie; e nel nostro, senti anche l’abbraccio di tutti i fratelli e le sorelle che, dall’inizio sino ad oggi, in modi diversi, hanno edificato questa comunità, siano essi qui o altrove.

Rendiamo grazie a quanti ti hanno dato la vita e hanno concorso a renderti un cristiano. I tuoi genitori che sono qui questa sera, insieme a tuo fratello; i tuoi amici, che sappiamo quanto ti sono cari; la chiesa di Milano che ti ha generato alla fede.

Rendiamo grazie ai tanti amici e amiche, ai tanti monaci e monache che ci hanno scritto o che sono qui questa sera: da Dumenza, da Pra ‘d Mill, dal monastero ortodosso del Pantocratore di Arona, dalla Comunità Gesù Redentore di Qaraqosh. Ci rallegriamo per la presenza di alcune Piccole sorelle di Gesù e di alcune Sorelle del Signore, come anche per la presenza di un fratello dalla Comunità di Cellole e di rappresentati delle nostre fraternità di Ostuni, Civitella e Assisi.

Un grazie particolare all’arcivescovo di Palermo, +Corrado, amico fedele, che presiede questa eucaristia; e a tutti voi, che non posso ricordare per nome. A tutti, cari amici e amiche, che avete voluto essere con noi in questa notte, appartenenti a chiese diverse, a sottolineare quanto questa festa ci faccia uno nella contemplazione del Figlio amato del Padre, il nostro grazie.


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