Il mistero dell’amore

Foto di NASA Hubble Space Telescope su Unsplash
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5 gennaio 2025

II domenica dopo Natale
Giovanni 1,1-18 (Sir 24,1-4.8-12; Ef 1,3-6.15-18)
di Luciano Manicardi

1 In principio era il Verbo,
e il Verbo era presso Dio
e il Verbo era Dio.
2Egli era, in principio, presso Dio:
3tutto è stato fatto per mezzo di lui
e senza di lui nulla è stato fatto di ciò che esiste.
4In lui era la vita
e la vita era la luce degli uomini;
5la luce splende nelle tenebre
e le tenebre non l'hanno vinta.
6Venne un uomo mandato da Dio:
il suo nome era Giovanni.
7Egli venne come testimone
per dare testimonianza alla luce,
perché tutti credessero per mezzo di lui.
8Non era lui la luce,
ma doveva dare testimonianza alla luce.
9Veniva nel mondo la luce vera,
quella che illumina ogni uomo.
10Era nel mondo
e il mondo è stato fatto per mezzo di lui;
eppure il mondo non lo ha riconosciuto.
11Venne fra i suoi,
e i suoi non lo hanno accolto.
12A quanti però lo hanno accolto
ha dato potere di diventare figli di Dio:
a quelli che credono nel suo nome,
13i quali, non da sangue
né da volere di carne
né da volere di uomo,
ma da Dio sono stati generati.
14E il Verbo si fece carne
e venne ad abitare in mezzo a noi;
e noi abbiamo contemplato la sua gloria,
gloria come del Figlio unigenito
che viene dal Padre,
pieno di grazia e di verità.
15Giovanni gli dà testimonianza e proclama:
«Era di lui che io dissi:
Colui che viene dopo di me
è avanti a me,
perché era prima di me».
16Dalla sua pienezza
noi tutti abbiamo ricevuto:
grazia su grazia.
17Perché la Legge fu data per mezzo di Mosè,
la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo.
18Dio, nessuno lo ha mai visto:
il Figlio unigenito, che è Dio
ed è nel seno del Padre,
è lui che lo ha rivelato.


I tre testi biblici della liturgia della II domenica del tempo di Natale presentano un profondo contenuto teologico e celebrano il mistero del rivelarsi di Dio all’uomo con linguaggio adatto all’impresa: troviamo il linguaggio poetico, il linguaggio liturgico, il linguaggio orante. Per dire il mistero di Dio nel suo rapportarsi all’uomo, l’evangelista Giovanni eleva il suo linguaggio e ricorre a un poema di andamento innico, suddivisibile in strofe, una vera dossologia: e questo è il prologo del IV vangelo (Gv 1,1-18). L’autore della lettera agli Efesini ricorre a una euloghía, una benedizione, una sorta di “canto in prosa” (Romano Penna) che celebra la sovrana iniziativa di Dio che “in Cristo” trova il suo pieno dispiegamento, e a cui segue una preghiera che invoca per i credenti l’illuminazione interiore perché possano entrare nel mistero divino: e questa è la seconda lettura (Ef 1,3-6.15-18). Infine la prima lettura presenta una composizione che loda la sapienza (anzi si tratta di un autoelogio della Sapienza stessa), quasi un’omelia pronunciata nel Tempio davanti a un’assemblea liturgica (Sir 24,1-4.8-12). Il mistero del Dio che cerca comunione con l’uomo ed entra in relazione con lui viene espresso al meglio non dal linguaggio razionale e analitico, ma dal linguaggio evocativo, simbolico e sintetico della poesia e della preghiera, della narrazione poetica. Dietro quel mistero teologico, infatti, vi è il mistero dell’amore.

Il culmine della rivelazione di Dio (non si dimentichi che per il Siracide “sapienza” coincide con “rivelazione”), si manifesta come un nuovo velamento: la gloria di Dio appare nella carne umana (Gv 1,14), nel corpo di Gesù di Nazaret, in Cristo (Ef 1,3). La luce della gloria di Dio non è la luce abbagliante di una verità che acceca, ma la luce “visibile”, che può essere vista dagli umani proprio grazie al corpo umano che la protegge e la manifesta. L’opacità della carne è la condizione necessaria per “vedere la gloria di Dio” (“Il Verbo si fece carne … e noi abbiamo contemplato la sua gloria”: Gv 1,14). O forse, la luce della carne umana – svelata pienamente da Gesù di Nazaret – è la condizione per accedere al mistero di Dio. Lo stesso Lógos, “Parola”, “Verbo”, che rivela Dio, non è parola assoluta che si impone con il suo peso schiacciante e la sua autorità auto-evidente, ma parola dialogica che invita e offre, che apre una via, che indica, che fa segno. La Parola è luce che illumina il cammino. Se il Lógos era in Dio e presso Dio, in legame eterno e vitale con Dio, tutt’uno con lui, allora Dio, che è luce (“Dio è luce e in lui non c’è tenebra alcuna”: 1Gv 1,5) è dialogico in se stesso: rivelandosi, egli chiama l’uomo al dialogo. Rivelandosi, trasmette la sua luce all’essere umano che la può riflettere. I Padri della Chiesa hanno spesso fatto ricorso all’immagine del sole e della luna per illustrare il rapporto tra Cristo e la Chiesa. Se Cristo è la luce che illumina ogni essere umano, “la chiesa che riceve la sua luce diviene a sua volta luce del mondo e illumina coloro che stanno nelle tenebre” (Origene). Sant’Ambrogio scrive: “La chiesa è la vera luna che non splende della sua stessa luce, ma di quella di Cristo e attrae a sé lo splendore del sole di giustizia in modo da dire: non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me”. Va notato che Ambrogio applica il passo paolino non al singolo individuo, ma alla chiesa stessa. Ma ancora: svelandosi come Parola, Dio suscita, invece di annichilire o di spegnere, la parola dell’uomo. Dio abbisogna della parola umana. Il corpo e la parola di Gesù sono i luoghi privilegiati della manifestazione di Dio. Il corpo e la parola umani sono i luoghi in cui l’uomo risponde alla comunicazione di Dio riflettendo la sua illuminazione.

Quando Luca narra la nascita di Gesù a Betlemme, egli afferma che l’annuncio dell’evento dato dall’angelo ai pastori si accompagna a una grande luce che investe i pastori stessi (Lc 2,9). Non può pertanto stupire se i testi della liturgia odierna proseguono la celebrazione del Natale con riferimenti alla luce. La stessa Sapienza è evocata nell’Antico Testamento con il riferimento alla luce: essa “è riflesso della luce perenne” (Sap 7,26), anzi, “paragonata alla luce, risulta più luminosa” (Sap 7,29). E non stupisce che l’evento dell’incarnazione, della Parola fatta carne, faccia seguito alla memoria della creazione, quando per mezzo della Parola “tutto fu fatto” (Gv 1,3). E se la Parola si fa carne in quel Gesù che è “la luce vera che illumina ogni uomo” (Gv 1,9), la prima opera della Parola creatrice fu la luce: “Sia la luce” (Gen 1,3). “La luce ci porta il mondo, è il nostro principale accesso al mondo; la luce è un’onda che parla, che ci dice del mondo; la luce non è solo un’onda, ma è piuttosto la relazione che si instaura fra noi e queste onde, e la relazione che queste onde stabiliscono fra noi e il mondo; è la luce che ci fa, in quanto esseri di relazione. Siamo figli della luce”. Queste sono parole del fisico Carlo Rovelli coinvolto, con originale e intelligente intuizione, dal vescovo di Verona, Domenico Pompili, nella redazione della Lettera pastorale del 2024 intitolata Sulla luce. Dal canto suo, dunque dal versante credente e pastorale, il vescovo Pompili, riprendendo le parole della Lumen fidei “è urgente recuperare il carattere di luce proprio della fede, perché quando la sua fiamma si spegne anche tutte le altre luci finiscono per perdere il loro vigore”, riconosce che “la nostra religione cristiana nelle sue forme istituzionali, rituali, dotte, teologiche ha perso molta della sua luce, è diventata opaca perché non ha più in sé la riserva di Spirito che l’ha generata”.

Ora, il Natale celebra la nascita di Gesù, e ogni nascita è sempre un venire alla luce. La nascita è sempre inizio, cominciamento, è dare vita a qualcosa di totalmente inedito. Potremmo dire che è l’azione per eccellenza perché dà vita a ciò che prima non c’era, anzi a colui o colei che prima non c’erano. Le nascite non significano semplicemente la prosecuzione del mondo attraverso i nuovi nati, ma il rinnovamento radicale del mondo. Perché questo è la nascita: non solo consentire che la vita prosegua, ma soprattutto rinnovarla radicalmente con il nuovo venuto. Del resto, solo ciò che si rinnova prosegue, ha una continuità, ha un futuro. Nell’umiltà e nella quotidianità dell’atto della nascita è insito lo straordinario del rinnovamento del mondo, della sua trasformazione. La nascita è procreazione. Ora, creazione e nascita sono strettamente correlate, come indicano i testi biblici della liturgia del tempo di Natale di oggi nei quali sempre si parla della creazione: Siracide parla della sapienza creata fin dal principio e che, in certo modo, ha presieduto la creazione di tutto da parte di Dio; Giovanni afferma che la Parola era nel principio e che per mezzo suo tutto è stato creato; Paolo ricorda ai cristiani di Efeso che Dio “ci ha scelti in Cristo prima della creazione del mondo” (Ef 1,4). Ora, attraverso la fede e l’accoglienza della Parola il cristiano stesso può rinascere, può iniziare e reiniziare: “A quanti hanno accolto la parola ha dato potere di diventare figli di Dio” (Gv 1,12). Ecco allora che fare memoria della nascita di Gesù è disporsi a rinascere alla pienezza di vita dischiusa da Cristo, dove rinascita non è un evento puntuale, isolabile nel tempo, ma processo quotidiano e continuo. È il cammino della fede, della sequela, dell’ascolto quotidiano e sempre rinnovato della Parola che può trasformare la vita. Dunque, i testi biblici di questa domenica, di cui abbiamo sottolineato la profonda portata teologica, assumono anche una dimensione profondamente spirituale mostrando che la prassi dell’accoglienza dalla parola di Dio può operare la trasformazione personale.

Ma la rinascita non può che essere anche collettiva, comunitaria, ecclesiale. Di fronte alla perdita di luminosità della vita ecclesiale, oggi occorre riscoprire e mettere in atto creatività e immaginazione, radicandosi sempre più nelle fonti genuine della vita cristiana e concentrando le priorità sulla formazione umana e sulla trasmissione dell’arte della vita secondo lo Spirito, osando dire di no ad altre attività che, per quanto buone e sante, non sono essenziali. Dare un futuro più luminoso alla vita ecclesiale implica anche accettare di fare il lutto e di lasciarsi alle spalle tante forme ed espressioni che sono dichiarate superate dalla storia e, soprattutto, che non parlano più ai contemporanei. La ragion d’essere della chiesa è esattamente nel porsi a servizio della relazione con Dio Padre, nel Figlio, per mezzo dello Spirito santo dei battezzati. Il battesimo è “illuminazione” (Eb 6,4; 10,32) e “rigenerazione” (1Pt 1,23), ma come l’illuminazione avviene emergendo dall’acqua in cui si era immersi, così la rigenerazione comporta un passaggio da uno stato simbolico di morte. Se ogni uomo è chiamato a completare la propria nascita nascendo a se stesso nelle varie fasi della vita, il credente è chiamato anche a una rinascita da Dio, che avviene per accoglienza di un dono che diventa intimo principio di rigenerazione. Il dono di Dio e l’accoglienza dell’uomo costituiscono la sinergia grazie a cui l’uomo accetta di nascere alla propria identità di figlio di Dio. Ma sempre si tratta di un passaggio pasquale, dalla morte alla vita.


Ascolta la terza traccia di preghiera per il natale