Ascoltare oggi insieme
26 gennaio 2025
III domenica nell’anno
Luca 1,1-4; 4,14-21 (Ne 8,2-4.5-6.8-10)
di Luciano Manicardi
1 Poiché molti hanno cercato di raccontare con ordine gli avvenimenti che si sono compiuti in mezzo a noi, 2come ce li hanno trasmessi coloro che ne furono testimoni oculari fin da principio e divennero ministri della Parola, 3così anch'io ho deciso di fare ricerche accurate su ogni circostanza, fin dagli inizi, e di scriverne un resoconto ordinato per te, illustre Teòfilo, 4in modo che tu possa renderti conto della solidità degli insegnamenti che hai ricevuto. 4in modo che tu possa renderti conto della solidità degli insegnamenti che hai ricevuto.
La lettura della Scrittura in un contesto assembleare: questo l’elemento che unisce la prima lettura (Ne 8,2-4.5-6.8-10) e il vangelo, o almeno la seconda delle due parti che costituiscono la pericope evangelica odierna. (Lc 1,1-4; 4,14-21). Infatti il vangelo comprende anche una prima parte (Lc 1,1-4) che costituisce il prologo del terzo vangelo. Il prologo, redatto in perfetto stile retorico secondo il procedimento letterario in uso tra gli storici dell’antichità, è una solenne ouverture con cui Luca intende conferire dignità letteraria al messaggio cristiano. Egli destina il libro del vangelo a una cerchia di destinatari più ampia di coloro che abitano il recinto ecclesiale: se il messaggio di Gesù, centro del racconto (diéghesis: Lc 1,1) evangelico, è universale, destinato a “tutti i popoli” (Lc 24,47), anche il libro che attesta tale messaggio deve avere una destinazione universale. In questi versetti che aprono il vangelo, Luca non nomina nemmeno Gesù. Egli affida al dipanarsi del racconto il compito di mostrare chi è Gesù e come Dio si manifesti in lui. Il lettore, che da subito sa che Gesù è il Cristo, il Signore (cf. Lc 2,11), essendogli rivelato già nel racconto della nascita a Betlemme (Lc 2,1-14), volgerà la sua attenzione a riconoscere questo in ciò che Gesù dice e compie.
Se la pagina lucana presenta Gesù impegnato nella liturgia sinagogale a Nazaret in giorno di sabato, il testo di Neemia mette in scena la lettura pubblica della Torah a Gerusalemme, presso la Porta delle Acque il primo giorno del mese di Tishri (il settimo mese, settembre-ottobre), alla vigilia della festa delle Capanne. L’evento sigilla la ripresa del culto a Gerusalemme e rappresenta l’apice dell’opera di ricostruzione materiale, spirituale e identitaria della comunità giudaica rientrata dall’esilio babilonese. In entrambi i testi siamo posti di fronte a gesti e parole che compongono un rito e che si svolgono in uno spazio e in un tempo precisi. In Ne 8 (considerando per intero il testo dal v. 1 al v. 12, mentre la pericope liturgica è sforbiciata) il testo presenta questa successione: convocazione (vv. 1-2), proclamazione (vv. 3-4), apertura del libro e benedizione iniziale (vv. 5-7), spiegazione (vv. 8-9), congedo (vv. 10-12). In Lc 4,16-21, la scena si svolge come al rallentatore: Gesù, in sinagoga, si alza per leggere (v. 16), riceve il rotolo del profeta Isaia (v. 17), lo apre (v. 17), trova il passo che leggerà (v. 17), riavvolge il rotolo (v. 20), lo consegna all’inserviente (v. 20), si siede (v. 20), fa l’omelia (v. 21). Il contesto è quello della liturgia sinagogale sabbatica ma rivisitata per attuare una concentrazione sull’essenziale: il compimento della profezia di Isaia e l’inaugurazione dell’“oggi” di grazia. I testi offrono così l’occasione per riflettere sul rito.
Il passo di Neemia mostra la capacità del libro della Torah di creare comunità attraverso la sua proclamazione e spiegazione. Colpisce che l’iniziativa dell’azione sia del popolo, non di Esdra. È il popolo che si raduna e che invita Esdra, lo scriba, lo studioso della Torah, a portare il libro e a leggerlo (Ne 8,1). Il popolo che ha vissuto lo sradicamento nei lunghi anni dell’esilio babilonese, ora si radica in quella Torah che è la sua vera patria. Il popolo riconosce la sua vocazione nella Torah e in essa trova anche la sua unità: è come “un solo uomo” (Ne 8,1) che esso si raduna ed è per l’autorità del popolo che Esdra compie il suo servizio. Il ruolo di Esdra è subordinato. L’assemblea si riunisce al di fuori del Tempio, non in uno “spazio sacro”, e la dimensione “laicale”, in cui l’autorità è del laós, del popolo, emerge anche dalla presenza, accanto a Esdra di 13 “laici” (nominati in Ne 8,4, saltato dal lezionario liturgico; in 8,7 sono invece elencati 13 leviti). Il testo di Neemia presenta un modello di comunicazione che non corrisponde alla polarità duale lettura – ascolto, ma è un fenomeno più articolato e mediato: la lettura viene fatta “brano per brano”, con spiegazione del senso da parte degli incaricati di “far comprendere” il testo stesso. La coesione comunitaria emerge dal fatto che il popolo, proprio “come un solo uomo”, tende l’orecchio, si alza in piedi, alza le mani, si inginocchia, si prostra faccia a terra, risponde, acclama, mangia, beve. Orecchio, mani, occhi, labbra: il popolo viene costruito in corpo. Si riconosce come corpo al cospetto della Torah. Non possiamo non essere colpiti dalla potenza di costruzione comunitaria di questo atto comunicativo, noi che viviamo nell’epoca della comunicazione senza comunità. Riflettendo sulla scomparsa dei riti nella società attuale, Byung-Chul Han ha scritto: “I riti sono processi dell’incarnazione, allestimenti corporei. Gli ordini e i valori in vigore in una comunità vengono fisicamente esperiti e consolidati. Vengono inscritti nel corpo, incorporati, cioè interiorizzati mediante il corpo. Così i riti creano una conoscenza e una memoria incarnate, un’identità incarnata, un legame incarnato ... Nella comunità in quanto tale è insita una dimensione corporea”. La dimensione rituale, che fornisce un linguaggio comune (“Amen, amen”) e una gestualità condivisa (“si inginocchiarono e si prostrarono con la faccia a terra”) non ha nulla a che fare con l’appiattimento e la standardizzazione dei comportamenti, ma rinvia all’educazione dell’anima a partire dal corpo. Nel rito è il corpo che istruisce l’interiorità tanto del singolo quanto, in particolare, della comunità. La performatività poi dell’azione rituale si manifesta nel banchetto festoso che sigilla il rinnovamento dell’alleanza. Banchetto che non può dimenticare chi “non ha nulla di preparato” (Ne 8,10) e a cui i membri dell’assemblea portano porzioni di cibo. Dalla proclamazione all’azione attraverso la spiegazione e la comprensione. Il fine della lettura-proclamazione della Parola di Dio è pratico: è la vita.
Anche la pagina evangelica presenta un quadro rituale. Gesù ritorna a Nazaret, luogo “dove era cresciuto” (Lc 4,16), ma non ci viene detto nulla di visite a parenti o famigliari o conoscenti. Non va a casa sua, ma viene narrato il suo entrare, “secondo il suo solito” (Lc 4,16), in sinagoga il giorno di sabato. E qui Gesù abita la ritualità della liturgia dello shabbat. E si mostra totalmente a suo agio, pienamente libero, “a casa sua”, in questo contesto, in cui si inserisce nella prassi consolidata dei movimenti, dei tempi, dei gesti rituali. Il rito è da sempre per l’umanità una tecnica simbolica di “accasamento”: esso rende abitabile il mondo. In questo processo è decisiva la dimensione della ripetitività. Dimensione antropologica basilare, poiché noi ripetiamo quotidianamente i gesti che sono indispensabili alla vita, ma anche forma di rassicurazione e di stabilizzazione che ci strappa all’estrema precarietà degli eventi e del vivere. Inoltre, la ripetizione (di gesti, parole, movimenti), tipica del rito liturgico, tende all’interiorizzazione, a far penetrare nel profondo ciò che si celebra. Di nuovo, il rito educa l’interiorità. Luca poi ci mostra che Gesù, al cuore stesso di questo quadro liturgico emerge in tutta la sua soggettività, libertà e autorevolezza. E questo appare nelle parole di “commento” alla pagina di Isaia proclamata. In realtà Gesù non fa un commento, ma proclama un adempimento. Ciò che Isaia annunciava, ora si compie. Se l’intero vangelo non è narrazione di fatti “accaduti”, ma di eventi che “si sono compiuti” (Lc 1,1: pepleroforeménon), all’interno della dinamica di promessa-compimento, ora Gesù attesta con autorevolezza che le parole profetiche di Isaia si sono compiute (Lc 4,21: peplérotai). Il presente della salvezza si può scrivere solo con le parole del passato, con le parole, cioè, delle Scritture sante. Quanto in Lc 4,16-21 è palese, il lettore dovrà ritrovarlo nascostamente in ogni pagina del racconto lucano: le Scritture, citate apertamente o in forma di allusione o di riferimento velato, sono onnipresenti e conferiscono al racconto la forma di memoria esaudita.
Una parola di attualizzazione merita l’omelia esemplarmente breve di Gesù: “Oggi si è compiuta questa Scrittura nei vostri orecchi” (Lc 4,21: letteralmente). Vi è qui la struttura basilare di ogni omelia. Oggi: la parola antica deve risuonare nell’oggi storico, sicché l’omelia non sarà una lezione di esegesi o di archeologia, ma un’ermeneutica della parola scritturistica. La Scrittura: l’omelia ha per oggetto la Scrittura, e massimamente il vangelo, non documenti magisteriali o “giornate” dedicate ad aspetti particolari dell’attività pastorale. Voi: l’omelia ha dei destinatari precisi, è atto comunicativo tra il pastore e la comunità e dunque è parola che traduce nell’oggi della comunità l’antica pagina scritturistica risuscitandola a parola vivente per l’oggi di persone precise. Essa vuole mettere la comunità pratichi egli stesso, quotidianamente, tale operazione spirituale. Allora egli saprà fare dell’omelia una comunicazione di fede, saprà “convertire la vita in verità” (Ralph Waldo Emerson), ovvero: facendo passare la sua esperienza esistenziale attraverso il fuoco del vangelo e del pensiero, potrà rendere l’omelia “manifestazione della verità” (2Cor 4,2), cioè un mettere la coscienza del credente di fronte alla presenza di Cristo.