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Comentários às leituras dos domingos e dos dias festivos

XXXII domingo do Tempo Comum

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11 novembro 2012
Reflexões sobre as leituras
de LUCIANO MANICARDI
O verdadeiro dom não é a oferta de uma coisa, mas simboliza o dom de si próprio, o dom da vida

11 novembre 2012
di LUCIANO MANICARDI

Anno B 

 1Re 17,10-16; Sal 145; Eb 9,24-28; Mc 12,38-44

Prima lettura e vangelo hanno molteplici richiami reciproci: la povertà come spazio di libertà (non si è tesi a difendere ciò che si possiede) che consente il dono; il rischio e la benedizione del donare (dare tutto ciò che si possiede espone alla morte, ma diviene fonte di vita); il vero dono non è dono di qualcosa, ma simbolizza il dono di sé, il dono della vita. In quest’ottica, anche la seconda lettura, che parla dell’offerta che Cristo ha fatto di sé una volta per tutte, può rientrare nell’unità del messaggio delle letture di questa domenica.

La prima parte del testo evangelico (Mc 12,38-40) è una messa in guardia che denuncia il rischio dell’ipocrisia presso le persone religiose, presso coloro che hanno a che fare con Dio e con le cose di Dio per mestiere e che rischiano di rendere anche Dio una cosa. Invece di servire Dio facendosi servi dei fratelli, essi si servono del religioso per essere serviti e riveriti. Gesù, sulla scia dei profeti, ricorda che si può essere pii e omicidi, religiosi e impostori, zelanti e crudeli, devoti e lussuriosi. Costoro fanno della vita di fede un’impudica esibizione: essere visti dagli uomini, primeggiare, curare l’esteriorità, sono i contrassegni di queste persone che dimenticano la dimensione nascosta della vita di fede. Il loro orizzonte è ateo: il riferimento per loro decisivo è lo sguardo degli uomini, non di Dio.


 

Dopo le parole profetiche di Gesù, ecco anche il suo sguardo profetico. Egli guarda “come” la gente gettava monete nel tesoro del tempio e sa vedere ciò che gli altri non vedono o sa vedere altrimenti ciò che gli altri vedono. Egli vede l’offerta gradita a Dio nel dono povero della vedova che getta due spiccioli, mentre vede il dono del superfluo nelle offerte abbondanti di molti ricchi. La profezia è anche questo sguardo altro sulla realtà che discerne il male o l’ipocrisia dove altri vedono e ammirano generosità, e vede il bene dove altri non vedono nulla o in ciò che altri ritengono inutile e indegno di considerazione.

Il testo interpella il credente sul come egli dona. “Dio ama chi dona con gioia” (2Cor 9,7): chi dona con gioia trova infatti la sua ricompensa non nello sguardo ammirato degli altri uomini, ma nell’amore di Dio. Donare diviene così esperienza di essere amati da Dio più che espressione di protagonismo di amore. Donando, noi entriamo nel cuore della vita, nella sua dinamica profonda, che è appunto dinamica di dono. E così conosciamo la gioia, che è gratitudine e senso di pienezza: “Vi è più gioia nel donare che nel ricevere” (At 20,35).

Il dono ha a che fare con la vita, e perciò anche con la morte. Il dono della vedova è dono totale, di “tutto quanto aveva per vivere” (Mc 12,44), dunque espone al rischio della morte. Il suo dono è “olocausto”, sacrificio vissuto nell’esistenza, offerta della propria vita a Dio (Rm 12,1: “offrite i vostri corpi come sacrificio vivente”) ed espressione di amore di Dio con tutto il cuore, l’anima, le forze (cf. Mc 12,30). Dare vita è anche donare la propria vita, perdere la propria vita. Invece il dono dei ricchi che danno del loro superfluo evita il rischio della morte ma mette a morte la dimensione simbolica del dono.


 

 Ultimo episodio prima del discorso escatologico di Gesù (Mc 13) e della sua passione, morte e resurrezione (Mc 14-16), il brano dell’obolo della vedova prepara la rivelazione cristologica del dono di sé che Gesù compie nel suo amare i suoi fino alla fine, ma assume anche una valenza ecclesiologica in cui la povera vedova che dona tutto diviene figura della chiesa. Una chiesa che nella povertà ha la sua ricchezza, perché solo la povertà genera la libertà e il coraggio con cui donare seguendo il Signore nel dono che dà vita e di cui è garanzia il “non possedere né argento né oro” (cf. At 3,6). Altrimenti si seguono logiche mondane di paura, di ricerca di beni e fondi che tolgono la libertà, creano dipendenze e fanno sì che “non possiamo più dire allo storpio: alzati, perché siamo pieni di argento e oro” (Card. Girolamo Seripando al Concilio di Trento).

LUCIANO MANICARDI

Comunità di Bose
Eucaristia e Parola
Testi per le celebrazioni eucaristiche - Anno B
© 2010 Vita e Pensiero

XXVII domingo do Tempo Comum

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7 outubro 2012
Reflexões sobre as leituras
de
LUCIANO MANICARDI
Se os fariseus tomaram o partido do homem que quer repudiar a mulher, Jesus lembra a origem da união entre o homem e a mulher, o momento em que os dois se unem para começar uma história comum. 

 

7 outubro 2012
de LUCIANO MANICARDI

Ano B 

Gen 2,18-24; Sal 127; Heb 2,9-11; Mc 10,2-16

Deus criou o homem e a mulher para que, unindo-se, sejam uma só carne: existe, de facto, uma solidão mortal, negativa (cf. Gen 2,18) e o homem entra na vida entrando em relação com o outro. A vida é relação e a alteridade homem-mulher está no coração da vida e da sua transmissão (I leitura). Jesus, interrogado sobre o problema do repúdio, remete para o texto dos Génesis e reitera que a vontade original de Deus criador para com o homem é a união monogâmica e indissolúvel: “Não separe o homem aquilo que Deus uniu” (Evangelho).

Exemplar é a aproximação divergente ao delicado problema do matrimónio, do amor do homem e da mulher que se torna relação, história, apresentado pelos fariseus e por Jesus. Os fariseus interrogam Jesus sobre uma questão de licitude: “É lícito?” (Mc 10,2). A mentalidade religiosa e escrupulosa arrisca-se a reduzir a relação do homem com Deus e com os outros homens a uma questão de legitimidade ou de menos ainda. Se as leis santas, se as leis da Igreja o consentem, então “estão de acordo com Deus” e com a consciência. Jesus, ao contrário, coloca o problema no plano da relação com Deus e com a outra pessoa.


 

É distinta, entre Jesus e os fariseus, a forma de ler as escrituras para iluminar a questão levantada. Moisés no Deuteronómio, referiu-se ao repúdio como facto e não como direito e a carta de repúdio é um documento que defende os direitos da mulher repudiada concedendo-lhe a possibilidade de se voltar a casar e de não ser forçada a prostituir-se ou a implorar para viver. É óbvio que num contexto patriarcal, este antecedente do tempo de Moisés podia fundar e justificar uma praxis profundamente injusta e opressiva. A menção, feita en passant, de repúdio no Deuterónomio, torna-se para os fariseus alicerce de um direito: o único problema em questão é o dos motivos pelos quais um marido pode repudiar a sua mulher (cf. Mt 19,3). Jesus opõe-se à instrumentalização da disposição do tempo de Moisés, revelando o seu carácter provisório, de concessão e coloca-se em atitude de escuta da vontade de Deus criador, retomando Gen 1,27 e 2,24. O comportamento de Jesus opõe-se a uma leitura literal e supõe uma hermenêutica do texto bíblico que procura ir de encontro ao coração de Deus, à intenção de Deus no documento escrito que separa o que é fundamental do que é acessório.


 

Gesù prende sul serio Dio e risale alla volontà del legislatore, ma prende sul serio anche la coscienza dell’uomo ed eleva il discorso al piano della relazione e della responsabilità personali. Se i farisei fanno proprio il punto di vista dell’uomo che vuole ripudiare la moglie, Gesù risale all’origine dell’unione dell’uomo e della donna, al momento in cui i due si uniscono decidendo di fare una storia insieme (cf. Mc 10,7-8). Ciò che è essenziale allora è imparare l’amore come fatica, come lavoro, come storia. È importante passare dall’innamoramento al vivere insieme con un’altra persona. L’amore che ha scelto i due deve divenire l’amore che i due scelgono facendo divenire storia il loro incontro: allora l’amore diventerà pazienza, ascolto, perdono, attesa dei tempi dell’altro, sacrificio, attenzione, sopportazione, riconciliazione… Diventerà un amore più intelligente e fedele. Fedele perché intelligente. La fedeltà è infatti costitutiva del matrimonio cristiano che si fonda sulla fedeltà del Dio dell’alleanza e narra tale fedeltà.

Di fronte a una questione spinosa come quella del ripudio Gesù non emette sentenze né legifera, ma compie un annuncio, l’annuncio rigoroso ed esigente che emerge dalla volontà di Dio contenuta nelle Scritture. Un annuncio che la chiesa è chiamata a ripetere, ma in ginocchio e guardandosi dal cadere nella logica dei farisei del nostro testo. Logica che rischia di condurre a ergersi a giudice del mistero grande della situazione matrimoniale di due persone e di fare delle parole di Gesù un’occasione di condanna per chi ha fallito. Perché tante sono le declinazioni della biblica “durezza di cuore” (Mc 10,5).

XXIV domingo do Tempo Comum

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16 setembro 2012
Reflexões sobre as leituras
de
LUCIANO MANICARDI
"Ao longo do caminho" Jesus interroga os discípulos sobre a sua identidade e acolhe as suas respostas: é no seguir Jesus, concreto e quotidiano, que se clarifica para o discípulo a identidade de Jesus.

16 setembro 2012
de LUCIANO MANICARDI

Ano B

Is 50,5-9a; Sal 114; Tg 2,14-18; Mc 8,27-35

O caminho de obediência do servo torna-se força para enfrentar com fé no Senhor a violência e a rejeição (Isaías); o caminho de Jesus é um itinerário de obediência e de fé, num Deus que se revela o Messias, chamado a conhecer a rejeição, a morte e a ressurreição (Evangelho).

"Ao longo do caminho" Jesus interroga os discípulos sobre a sua identidade e acolhe as suas respostas: é no seguir Jesus, concreto e quotidiano, que se clarifica para o discípulo a identidade de Jesus. A autêntica confissão de Jesus acontece existencialmente. A identidade daquele a quem se confessou atrai e implica a identidade d'Aquele que confessa: é na sua vida que o cristão confessa Cristo. Ou melhor: enquanto dizemos que somos cristãos é importante que tenhamos consciência que ainda nos devemos tornar cristãos. A obediência à vontade de Deus manifesta-se no corpo e nas relações, na existência e na morte. Até à morte! É a lição, recordada pelo velho Bispo Inácio de Antioquia, que, com o martírio à vista, escreve aos cristãos de Roma: "Agora começo a ser discípulo" (Ai Romani V,3).

A obediência de Jesus manifesta-se na expressão que diz que o Filho do Homem "deve" sofrer muito (Mc 8,31). Este “dever” não remete para uma imposição do alto, para uma vontade cruel de Deus  e menos ainda para espalhar o sangue, para satisfazer a ira de um Deus em cólera para com os homens pecadores. Aquele “dever” vai ao encontro da liberdade de Jesus com as exigências das Escrituras, isto é da vontade de Deus expressa nas Escrituras (“...não dizem as Escrituras que o Filho do Homem tem de padecer muito e ser desprezado?" Mc 9,12). Daqui flui o caminho de Jesus. Caminho que o leva a viver a paixão e a morte na fidelidade a Deus, no amor e na liberdade. Jesus sabe que, mesmo na rejeição e no abandono em que os homens o deixaram, o Senhor Deus o assiste (cf. Is 50,7). Em vez de suscitar imagens preversas de Deus, aquele "dever" implica o escândalo de um Deus que escolheu dar-se a conhecer aos homens pela cruz (cf. Mc 15,39), lugar simbólico que reune os homens nos infernos existenciais em que se pode precipitar, mas também paradoxal lugar de salvação universal.


 

Enquanto revela o caminho paradoxal de Deus ao encontro do homem, o caminho de Jesus torna-se também o escandaloso caminho que o discípulo deve seguir. A palavra que Jesus anuncia (“Jesus falava abertamente”: Mc 8,32 lett.) é sempre a escandalosa e paradoxal "Palavra da cruz” (1Cor 1,18) que muda os pensamentos e caminhos do homem (como o que acontece com Pedro: Mc 8,32-33). Na verdade, “os meus planos não são os vossos planos, os vossos caminhos não são os meus caminhos” (Is 55,8). Por isso é importante que Jesus permaneça para os crentes uma interrogação: “Quem dizeis vós que eu sou?” e não seja apenas uma resposta. Só assim Jesus será verdadeiramente o Senhor.

Aos discípulos e às multidões Jesus pede para renegarem-se a si mesmos, tomarem a sua cruz, perderem a vida (cf. Mc 8,34-35): palavras que vão contra a atual vaga espiritual-psicológica que reduz o cristianismo a dilatações de si mesmo e à procura de um bem estar interior. Mas tratam-se de palavras que, absolutizadas, distorcem bastante a visão da vida cristã tranformando-se em ponto de partida para neuroses e esquecendo que o centro da vida de Jesus e do crente é o amor, uma vida consumida livremente pelo amor até à morte. Jesus amou Deus e os homens, uma escolha sem retorno. A renúncia e a perda de Jesus, como do cristão, encontram sentido no seio deste amor. Renegar-se e tomar a própria cruz quer dizer renunciar a defesa e carregar os instrumentos da própria condenação à morte; ou seja, sair dos mecanismos de autojustificação e abandonar-se totalmente ao Senhor. Quando todos os apoios humanos escassearem e o sentido do caminho parecer indecifrável então a atitude que o Evangelho designa por "perder a própria vida", "tomar a cruz" revelar-se-ão essenciais para prosseguir o caminho com uma fé cada vez mais despida e autêntica.

LUCIANO MANICARDI

Comunidade de Bose
Eucaristia e Parola
Textos para as Celebrações Eucarísticas - Ano B
© 2010 Vita e Pensiero 

XX domingo do Tempo Comum

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19 agosto 2012
Reflexões sobre as leituras
de
LUCIANO MANICARDI
Eis a vida que inerva a Eucarístia: fazendo participar o crente do Espírito de Deus que perdoa os pecados e dá a vida aos mortos, ela faz-nos viver com aquela força de vida que é o ágape de Deus, mais forte do que a morte.  

domingo 19 agosto 2012
de LUCIANO MANICARDI 

Ano B

Pr 9,1-6; Sal 33; Ef 5,15-20; Jo 6,51-58

De que é que nos alimentamos? O que é que nos faz viver? Estas são as perguntas que emergem dos textos dos Provérbios e do Evangelho. Se o acto de comer assegura a vida física, o alimento oferecido pela Sabedoria tona-nos participantes de sabedoria e inteligência e o alimento e a bebida que o Filho do Homem pede que tomemos fazem o crente participar da vida de Cristo.

O texto Evangélico tem um conteúdo eucarístico expresso em termos, particularmente, crús e realistas: comer a carne e beber o sangue do Filho do Homem (cf. Jo 6,53-56). “Quem realmente come a minha carne e bebe o meu sangue fica a morar em mim e Eu nele”, diz Jesus. Este realismo era corrente na tradição católica pós Reforma, sobre a "real" presença de Cristo naquilo que é comido enquanto o alimento é desmaterializado e des-corporizado, mas pode também ser declinado com uma reflexão sobre o sentido do material e o acto real de comer. Com efeito, na Eucarístia, o corpo de Cristo chega ao crente não através de um contato exterior e efêmero mas de uma forma íntima e duradoura: a assimilação de um alimento. Todas as valências inscritas no acto de comer são assumidas e ganham significado na Eucaristia: as valências culturais e sociais de trabalhar e preparar a refeição, a valência convivial (come-se com...) e a valência afectiva (o comer está ligado à oralidade e ao desejo). O comer revela o homem no seu estado necessitado e relacional, de ligação com a terra (comer um alimento é alimentar-se de um pedaço do mundo) e com os outros homens; remete-o à sua condição de corpo e à sua caducidade (come-se para viver, mas a comida não evita a morte). Entre a Eucaristia e as dimensões da existência existe um ciclo: estas são assumidas na primeira e a primeira ilumina-as, dando-lhes um lugar de experiência da presença de Cristo e de agradecimento.    

  “Assim como o Pai que me enviou vive e Eu vivo pelo Pai, também quem de verdade me come viverá por mim." (Jo 6,57). Este “me come” está em relação direta com o envio do Filho por parte do Pai, envio que é motivado pelo amor do Pai para com o mundo. Dar-se como alimento para a vida dos homens é pois a expressão mais fecunda e radical do amor de Deus e de Cristo para com toda a Humanidade. Participando na Eucaristia nós confessamos o amor de Deus por nós e reconhecemos que é esse amor que nos faz viver.


 

A expressão “carne e sangue” de Cristo remete para toda a vida humana do Filho de Deus. Comer aquele alimento e beber aquela bebida não significa apenas participar num rito, mas submeter-se, também, à escola da humanidade de Jesus. Toda a vida de Jesus é uma narração da vida divina e da vitória do amor sobre a morte e sobre o pecado. Assimilar a vida de Jesus significa acreditar n'Ele, morto e ressuscitado, Palavra eterna de Deus, feita carne que na sua humanidade narrou plenamente Deus. O paralelismo instituido por João àcerca do comer e do crer é instrutivo: “Quem realmente come a minha carne e bebe o meu sangue tem a vida eterna e Eu hei-de ressuscitá-lo no último dia" (Jo 6,54); “aquele que crê tem a vida eterna” (Jo 6,47); “Esta é, pois, a vontade do meu Pai: que todo aquele que vê o Filho e nele crê tenha a vida eterna; e Eu o ressuscitarei no último dia” (Jo 6,40). O rito exprime a fé, a fé inerva a vida quotidiana em todas as suas dimensões e ilumina o rito tornando-o magistério pela existência.

A transferência da vida de Cristo para o crente, no acto eucarístico, acontece graças ao Espírito Santo. Na Eucaristia nós comungamos a humanidade de Jesus, vivificada pelo Espírito, comungamos “Cristo, nossa Páscoa e pão vivo que, mediante a sua carne vivificada e vivificante no Espírito Santo, dá vida aos homens” (PO 5). Eis a vida que inerva a Eucaristia: fazendo participar o crente do Espírito de Deus que perdoa os pecados e dá a vida aos mortos, ela faz-nos viver com aquela força de vida que é o agape de Deus, mais forte do que a morte. A Eucaristia, como sacramentum charitatis, é também sacramento do dom do Espírito. E “é o Espírito quem dá a vida” (Jo 6,63).

LUCIANO MANICARDI

Comunidade de Bose
Eucaristia e Parola
Textos para as Celebrações Eucarísticas - Ano B
© 2010 Vita e Pensiero